Ancora oggi, leggendo il vangelo, spesso reagiamo dicendo con i discepoli «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» e mormoriamo contro le pretese di Gesù. Egli risponde chiedendosi retoricamente: «Questo vi scandalizza?» e, con espressioni ancora più dure, toglie ogni possibilità d’interpretare le sue parole in modo simbolico, raffinato ma gnostico. E’ il caso del sesto capitolo del vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia della Parola nelle scorse domeniche. Per avere parte alla vita eterna, dice Gesù, è necessario mangiare – nel testo si usa il verbo trogein, cioè masticare con particolare cura per assaporare ogni frammento e non perdere nulla di quel nutrimento – e partecipare al pane e al calice, sacramentalmente corpo e sangue, nutrirsi dei segni e così ricevere la vita del Figlioveramente uomo perché l’Incarnazione va accolta senza riserve. Ma questo invito non è stato accettato da tutti, infatti l’evangelista annota: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”. Allora Gesù rivolge alla ristretta cerchia dei Dodici apostoli, e oggi anche a noi, la domanda «Forse anche voi volete andarvene?».
E’ di capitale importanza comprendere i motivi di questa crisi in individui che seguivano con devozione Gesù ma non riuscivano ad accettare che fosse “disceso dal cielo” e che nella sua umanità fosse possibile incontrare il Dio vivente. Lo avevano acclamato “il grande profeta che viene nel mondo” (Gv 6,14), volevano farlo re (Gv 6,15), ma di fronte a questa pretesa si scandalizzano: profeta sì, ma corpo da mangiare e sangue da bere (Gv 6,51-56) no: è un invito disgustoso, contrario alla Legge! Gesù si oppone a questa crisi di fede e continua a dire tutta la verità manifestando la sua piena identità pur consapevole della dell’incredulità e della incomprensione che avrebbe generato.
Perché questo comportamento? E’ la conferma di quanto Egli asserisce: nessuno può venire a lui se il Padre non lo guida, questo dono di Dio va cercato senza alcun proprio merito religioso, ma accettando lo scandalo dell’umanizzazione di Dio.
La crisi nelle relazioni tra Gesù e la sua comunità è tramandata dai quattro vangeli e lo testimoniano le parole di Pietro «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». Con questa affermazione Pietro intende dire che in Gesù c’è la Presenza di Dio, che in questo mondo non troviamo nel tempio, ma nell’umanità del Cristo, il Figlio.
La fede cede al docetismo quando pretende un Dio solo onnipotente che, quindi, non può diventare umano. Gesù non teme di restare solo perché crede nella parola del Padre e nella promessa che non verrà meno perché Egli è fedele! E’ un invito non a calcolare il numero dei fedeli, ma a porre attenzione alla qualità della fede, evocata dall’immagine della potatura della vite. Dei tralci vengono tagliati (Gv 15,2), ma a farlo è solo il Padre, non noi o chi ha autorità nella comunità. Così termina il discorso di Gesù sul pane della vita riportato nel sesto capitolo del vangelo di Giovanni, che non ricorda l’istituzione eucaristica e la sostituisce con la lavanda dei piedi.
L’ultimo degli evangelisti aveva intuito che la liturgia poteva scadere nel ritualismo o essere considerata un’azione magica; quindi prende posizione contro la mera spiritualizzazione dell’Eucaristia, consapevole che non ci può essere distacco tra la messa e la vita di tutti i giorni. “Credere in Colui che ha mandato”, raccomanda Gesù per ricordare che occorre farsi guidare dalla Parola. Perciò non basta fare la Comunione col rischio di trasformarla in un rito riduttivo. L’amore a parole non é sufficiente: occorre una carne umana che racconti Dio mentre ricorda la nostra debolezza, la fragilità, la morte, che non vanno dimenticate per ricercare una vita solo spirituale. L’Incarnazione non è di ostacolo alla comunione con Lui, anzi è il luogo ordinario dell’incontro con Dio: entrando in noi, la carne e il sangue di Cristo trasformano in figli di Dio e fanno conoscere la resurrezione. Quindi l’Eucaristia non è un secondo Gesù, separato dal Cristo della storia; è unica soggettività, altrimenti si rischia di cosificare l’Eucaristia. Invece, ricevendola, il cristiano vive come Gesù perché non è più lui, ma Cristo che vive in lui.
Alla fine probabilmente sono più le cose che non capiamo, anche noi attoniti a queste parole. Un contributo per chiarire significato e portata di questo complesso passo evangelico è fornito dal libro della Sapienza nel quale si asserisce che vocazione del discepolo è fare esperienza perché a queste condizioni tutto diventa più comprensibile. Ma al verbo comprendere occorre dare un significato secondo l’uso che ne fa l’evangelista Matteo – presente anche nel nostro dialetto – e che rimanda alle connotazioni storico-culturali del popolo ebraico: capire evoca il concetto di aver territorio, cioè spazio sufficiente; perciò a non comprendere sono coloro che non fanno spazio alla Parola. La Sapienza ricorda che per fare esperienza é necessario sedersi al banchetto da lei offerto presentandosi con la caratteristica condizione dei piccoli, degli inesperti, dei semplici per poter imparare coscienti che non si può confidare in se stessi. Dio si manifesta camminando con noi non attraverso esperienze straordinarie, non è mai fuori della nostra vita. Si consegna a noi usando l’immagine del banchetto imbandito in una casa fondata su sette colonne, implicito riferimento alla creazione, al mondo intero, casa di Dio dove avviene l’incontro. Inoltre, occorre aver fame e sete e non essere sazi: evidente anticipazione della celebrazione eucaristica.
Fare la comunione significa dunque, mangiare la parola di Gesù e farla propria, una disponibilità che produce tre importanti conseguenze: partecipare alla vita eterna, sperimentare la piena realizzazione personale; dimorare con Cristo vivendo non per se stessi ma per gli altri.
Gesù ripete per otto volte che è necessario mangiare la sua carne e bere il suo sangue: banchetto al quale siamo invitati ed opportunità per poter dire di essere in comunione con Lui, dimorare con Lui. Quest’ultimo è uno dei verbi più importanti usati dall’evangelista Giovanni; significa vivere con qualcuno che ci ama e che noi amiamo sperimentando la condivisione di tutta un’esistenza. Mangiare e bere esprimono quindi il modo migliore per realizzare l’accoglienza, per assimilare un nutrimento e una bevanda che diventano nostri perché accogliamo dentro di noi la vita di Cristo, vangelo dell’amore.