Conza, Teora, Sant’Angelo: l’Irpinia dei 90 secondi che quaranta anni fa ne scossero le sorti vive un presente fatto di macerie, di ciò che resta e di chi resta, tra quattromila che, invece, ogni anno se ne vanno. La rinascita non c’è mai stata, si è ricostruito altrove: è il risultato di un disastro che nella memoria di molti, e anche di molti cilentani, rimane come il terremoto che cambiò il Paese. Uno spartiacque, tra tragedie vecchie e nuove, tra un Meridione esausto e un Meridione abbandonato, come poi sarebbe stato. Soccorsi lenti, poiché neppure si conoscevano quei luoghi, e l’eco lontana del grido d’ira di Sandro Pertini, allora presidente, che incitava a fare presto. Le immagini in bianco e nero di chi, a mani nude e per giorni, scavò nelle macerie, sperando di trovarvi vita, furono l’onda lunga sulla quale sorse l’idea della necessità di strutture di “difesa permanente”, e prese forma il primo modello di Protezione Civile, poi affinato e vilipeso, nella lunga sequela di sciagure che hanno colpito il paese.
Ma né i soccorsi, né la ricostruzione, 30 miliardi di lire subito e altri 25 distribuiti in aree contigue, sono servite a sanare i “paesi dell’osso”, che ancora oggi sono scheletri al futuro. Le risorse vennero spesso male impiegate, e, assai più comunemente, semplicemente disperse. Più che restituire alloggi, si crearono grandi agglomerati abitativi nelle periferie, finiti poi col diventare “villaggi” degradati e isole di malavita.
La Campania dell’80 fu una regione scioccata, che per anni ricordò il boato, il frastuono, annaspò il respiro nelle polveri dell’assenza di obiettivi e progettualità.
Il Cilento interno, che sentì soltanto il propagarsi lieve del tremore della terra, non si risparmiò il terrore. La gente si riversò in strada, alcuni riparando in auto. Tra loro c’era anche la mia famiglia. Mia sorella aveva appena un anno ed io non ero ancora in progetto di venire al mondo. Fu l’istinto di un attimo, correre via da ciò che smette di essere sicuro, una casa, il rifugio primario, senza raccogliere o portare con sé nulla, neppure le scarpe. Allontanarsi e sperare che smetta, per poi convivere, per giorni e notti, con la paura che possa riaccadere, e stavolta essere meno fortunati.
Rimanere svegli, con la consapevolezza di una profonda impotenza rispetto all’imprevedibilità di un tale evento. E contare i secondi, che separano la normalità dalla catastrofe. Appena novanta, come “fa la paura”.
La testimonianza di Aniello De Vita, medico e cantore del Cilento, nel libro “Storie di Canzoni”
“La domenica del 23 Novembre del 1980, io, Maria Rosaria e le nostre due bambine l’avevamo trascorsa in paese con mamma e papà. Una bella giornata d’autunno limpida, calda e piena di sole che trattenne più del solito i bambini a giocare nella piazzetta di Vico Noce e noi adulti a chiacchierare (…), prima di rientrare a Salerno.
(…) Intorno alle sei del pomeriggio di quella domenica, dopo aver caricato la macchina dei soliti pacchi accuratamente preparati da mio padre che ci riforniva di olio, vino, pane, frutta e quant’altro in quel periodo si trovava nell’orto e nella dispensa di casa De Vita, ci sistemammo nella nostra comoda berlina Lancia Fulvia e partimmo alla volta di Salerno. (….) Alle 19 e 34 minuti – la mia precisione non è casuale – mi trovavo ad immettermi sulla carreggiata nord della A3 (Reggio Calabria – Salerno), all’entrata di Battipaglia, quando la mia auto, come impazzita, cominciò a sbandare paurosamente e ad andare da una parte e dall’altra della strada ed io, che non riuscivo in alcun modo a controllare la direzione di marcia, rallentai l’andatura e a passo d’uomo raggiunsi la prima piazzola di sosta per controllare ruote e pneumatici. (….) vidi che tutto era a posto. Un pò più sollevato, ma non tranquillizzato, con prudenza ripartì alla volta di Salerno. (…..)
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non riesco a capacitarmi di come non abbia capito subito che eravamo stati investiti da una tremenda scossa di terremoto. Eppure, sia io che mia moglie, avevamo notato che tutte le macchine si accostavano al ciglio della strada e si fermavano; che sull’autostrada, all’altezza dei cavalcavia e costruzioni rurali erano caduti pezzi di muratura e calcinacci; che i paesi distesi alle falde dei monti Picentini non erano più illuminati e che il buio pesto, che incombeva su tutta la zona, era sinistramente squarciato soltanto dai fasci di luce degli abbaglianti delle auto in fuga dai centri abitati verso l’aperta campagna. Arrivati a Salerno, (….) prendemmo la via che di lì a poco, ci avrebbe portato a casa, al centro della città. Eravamo gli unici a marciare in quella direzione e commentammo così la lunga fila di auto che lentamente procedeva in senso contrario: “Chissà dove se ne va tutta questa gente a quest’ora?” (…)
Rallentai l’andatura ed abbassai il vetro per chiedere alla prima persona che poteva cos’era tutto quel casino. Non ebbi il tempo di farlo. Proprio in quel momento una signora, che aveva nei capelli, negli occhi e sul volto i segni della paura, sporgendosi dal finestrino ed agitando le mani come a volerci fermare, con voce rotta dal pianto, gridò: “Pazzi! Dove andate? Salerno è distrutta.”
Francesca Schiavo Rappo