Vivo in un presepe imbalsamato, arroccato su di una roccia possente che sembra un pugno che ti fa mancare l’aria.
Non ho visto nessun Gesù Bambino, ma solo tante Madonne dai volti rugosi e dalle anche ossute e spigolose, non vi è profumo d’incenso, ma sentore di agrumi e frutta secca, che dipingono l’aria con l’aroma del passato.
Tutto è cristallizzato nei sassi di questo presepe, tra i ciuffi d’erba e il muschio odoroso: l’odore del pane e della cannella svetta tra i tetti e le piccole case che si arrampicano sulle pareti rocciose, i pastori moderni tornano dalle loro officine e dai loro affanni e sanno di belva selvatica e docile. Vivo in un presepe che si staglia nella cornice più remota di un Sud che accarezza l’ombelico di ogni donna e di ogni uomo. Non vi sono natività qui, ma solo parti quotidiani e acque che si rompono con la stessa drammaticità di un respiro smorzato. Vivo in un presepe dove la morte è antica amica e compagna, da accogliere in punta di piedi tra i vicoli di pietra e gli antichi portali medievali, da ingoiare a piccoli sorsi come un liquore forte. Vivo in un piccolo presepe che si è preparato ad accogliere la nascita di quel Cristo con l’odore di anice stellato e spezie varie. Vivo in un presepe fatto di mani, di impasti morbidi, di forme diverse e di dialetti incomprensibili, di dolci che rimangono sempre uguali sulle papille gustative e nei ricordi, di racconti misteriosi e bui come il fiume di notte. Vivo in un presepe fatto di occhi di anziani, che suonano ancora il flauto e che fissano la solitudine negli occhi dei gatti randagi, di alberi di Natale al margine dei piccoli negozi di alimentari e delle piazze grandi quanto uno specchio d’acqua. Vivo in un presepe di grandi tavolate che si ripopolano con le rondini emigranti che tornano dal fumo delle città, che svolazzano tra le frasi di circostanza e la buccia del mandarino. Anche se quest’anno le tavolate non si sono ripopolate, non è meno presepe del solito.
Non saprei immaginare un presepe diverso, a cui tornare e a cui appartenere. Appartengo ad un presepe che si prende tutta la mia memoria.
Dicembre è la primavera del mio presepe, perché per noi il Natale è una necessità. Più che una necessità, è un racconto profumato al miele, un cordone ombelicale strappato mille volte con violenza omicida ma poi annodato con la cura minuziosa di un certosino, è lo zucchero a velo, il succo aspro degli agrumi più amari, è pietra e legno nello stesso momento. Ogni borgo incastonato nella tela della memoria e dell’entroterra, ha bisogno di una certezza, di un frammento di codice genetico a cui appigliarsi per non smarrire i propri lineamenti tra l’erba e la roccia. Il Natale è la nostra parvenza di normalità, la nostra sete di certezze e carezze tra i contraccolpi e le bastonate quotidiane. Il nostro navigatore dell’anima tra una miriade di strade impraticabili e sentieri che non ci portano da nessuna parte, tra la solitudine e l’isolamento che ci porta a parlare soltanto con i morti.
Fin quando tutto ciò continuerà a esserci, al di là di tutto, e al di là di ogni parvenza di normalità, noi saremo al sicuro.
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