Il presule dovette fare i conti con le ripercussioni di queste vicende sulla popolazione della diocesi. I guasti della Carboneria e delle altre sette coinvolgevano sacerdoti e chierici. Mons. Speranza visse un momento molto critico quando Del Carretto gli chiese di procedere alla sconsacrazione del canonico De Luca prima dell’esecuzione. Al rifiuto, il generale ordinò il suo l’arresto, disposizione revocata per le prevedibili reazioni del bigotto Francesco I.
Il problema della mensa e le continue usurpazioni costituivano una costante preoccupazione. Dalla platea con l’inventario dei beni risultava che molti terreni, oggetto di annose dispute come i terraggi ad Altavilla, erano stati usurpati. Particolarmente complessa per la mensa vescovile era la gestione dei beni a Capaccio, Albanella e Roccadaspide. Le difficoltà erano acuite dalla sostanziale estraneità del clero dei due Valli: ogni ripartimento si sentiva autonomo e invocava diritti e prerogative.
I moti e la repressione borbonica scavarono un solco profondo tra borghesia illuminata e dinastia; mentre il popolo manifestava la propria indifferenza alle sollecitazioni dell’una e dell’altra. Sotto l’apparente calma, permanevano motivi di scontento forieri d’insurrezioni o di circoscritte sommosse, generando continua apprensione. Tra le tante reti di congiurati, significativa la Fratellanza. Con una considerevole diffusione tra contadini ed artigiani, questa setta esemplificava bene il livello della crisi sociale. Nella zona si diffusero idee di giustizia sociale, che avevano avuto una lunga incubazione a causa della vertenza demaniale. Nel circondario di Vallo, a propagandarle, tra gli altri, fu il sacerdote Ferdinando Labruna di Massa. Il fatto che i promotori fossero dei sacerdoti inseriva questa setta nel filone della solidarietà cristiana, che alla difesa del sistema economico tradizionale assommava le rivendicazioni del comunismo sforestatore. Esso contestava la proprietà borghese nel tentativo di preservare il patrimonio dell’università e un supporto produttivo al frastagliato ed asfittico latifondo contadino. L’arretratezza animava la protesta in senso conservatore contro il ceto dirigente ogni volta che, dando l’impressione di conquistare il potere a livello politico, non rispettava diritti comuni ormai superati. Le vicende della Fratellanza rivelarono la complessità dei rapporti socio-economici e posero alla borghesia una serie di problemi impedendole di svolgere un moderno ruolo di classe dirigente. Nell’intreccio di passioni e d’interessi divergenti si rinveniva una sorta di filo conduttore nei moti del 1848; tuttavia, emergeva un fatto nuovo: tra dinastia e borghesia s’inserirono i contadini, coinvolgimento non determinato dalla coscienza di un comune interesse di derivazione marxista, ma dalla rivendicazione di un comunismo tutto meridionale, solipsistico e ideologicamente arretrato, che intendeva difendere rapporti sociali come s’erano venuti configurando negli ultimi secoli.
Anche per questa situazione si consolidò il mito del Cilento terra di rivoluzionari. Le attenzioni della polizia si concentrarono su quest’area; ma i funzionari gradualmente si convinsero che l’instabilità dell’ordine pubblico dipendeva dalla situazione economica e sociale, più che da un progetto di eversione politica. La fase repressiva registrò un continuo crescendo, nella sostanza inefficace a giudicare dalla statistica delle sentenze pronunciate dai giudicati regi del Principato Citra nel periodo 1846-1855. Il fenomeno delinquenziale evidenziava la correlazione tra criminalità organizzata, oppositori del regime borbonico e crisi complessiva del consenso. Nelle campagne la situazione permase confusa, buona parte della popolazione interpretò gli avvenimenti politici non come un tentativo dei liberali per ottenere la Costituzione, ma come un’occasione per vilipendere le istituzioni, alle quali s’imputava la responsabilità della precaria situazione.
L’insurrezione fu domata, ma la criminalità dilagò: evidente smacco per la restaurazione borbonica. La burocrazia borbonica notava la connessione tra delinquenza e prostrazione materiale; il sottintendente di Vallo riteneva che i problemi di ordine pubblico fossero gravi perché impossibile far fronte ai bisogni alimentari della popolazione. Le vicende provavano che la spaccatura tra ceto dirigente e dinastia fosse ormai irreversibile.
Nell’ultimo decennio prima dell’Unità, Ferdinando II continuò a governare in modo paternalistico, sensibile soltanto a eventuali riforme amministrative e accentuando il ruolo della chiesa col rafforzare il controllo vescovile sull’istruzione pubblica e privata e la direzione da parte degli ecclesiastici dell’importante settore dell’assistenza e della beneficenza, tutti elementi che aggravarono la condizione delle strutture ecclesiastiche, della disciplina tra i sacerdoti, della pratica religiosa tra i fedeli. Questa è la situazione che spinge a riprendere e portare a compimento il progetto di partizione dell’antica diocesi di Capaccio.