L’antropologia del microcosmo cilentano si caratterizzava per la precarietà del genere di vita e, quindi, per la dipendenza sociale, giuridica e culturale. Poche famiglie conducevano un’esistenza agita. Il codice di valori era condizionato dalla situazione economica e dalla posizione sociale, importante, perciò, il possesso, di terra, riferimento culturale che legava alla tradizione degli antenati e regolava con rigide leggi civiltà materiale ed ethos. Le ragioni socio-economiche e l’evoluzione culturale registrata minacciava i valori base sintetizzati nel binomio “roba e dio”. Nelle manifestazioni religiose e cultuali si determinava arretratezza di contenuti e di espressioni, con negative conseguenze sui costumi. Dopo la traumatica esperienza del 1799, la lunga corsa al possesso fondiario trovò una generale e definitiva approvazione non solo politica ed economica, ma anche morale e civile. Il potere centrale ottenne il consenso della piccola e media borghesia, la cui identità sociale si legava alla terra e ad attività professionali, impiegatizie e mercantili.
La diocesi di Capaccio subì le dinamiche del decennio napoleonico, apportatore anche di riforme ecclesiastiche, accettate senza rivedere l’azione pastorale per adeguarla ai bisogni della gente. La chiesa locale optò per una deprimente resistenza passiva. Le esigenze dell’individualismo agrario coinvolsero anche le strutture diocesane e il suo immenso patrimonio terriero. Tra lutti e soprusi, questo periodo segnò anche un radicale mutamento nella vita del clero e degli ordini religiosi. Le vicende politiche, i movimenti culturali, gli indirizzi della società esercitarono un evidente influsso. Si procedette a realizzare l’accentramento ecclesiastico. Meno evidenti e certamente in ritardo furono gli stimoli collegati all’apologia della religione secondo la sensibilità romantica, all’idea neoguelfa, al pullulare d’iniziative assistenziali sperimentate in altri contesti della penisola. Persisteva l’inadeguata formazione dei chierici, la netta separazione dal laicato, rapporti troppo stretti col potere; intanto, col precipitare degli eventi, si acuiva il dramma politico di molti preti.
La Chiesa locale, ridimensionata come potenza economica, decadeva per la crisi dell’apparato beneficiale della “ricetti zia” soggette alle riforme volute più dal potere civile che dai vescovi. I vantaggi dell’abolizione della feudalità, il ridimensionamento dei particolarismi per il limite posto alle prelature minori, la riduzione dei religiosi rafforzarono l’autorità dell’ordinario. Si cercò di porre rimedio alle pletora di ordinazioni elevando la consistenza del patrimonio sacro; tuttavia, rimanevano i problemi relativi alla povertà, alla mancanza di nozioni e alla moralità. Il governo riteneva un clero disciplinato la premessa per controllare la religione, elemento essenziale per mantenere la presa sul popolo. Ai vescovi si richiese la residenza; i preti dovevano formarsi nei seminari. Le raccomandazioni si legavano al proposito di usare il capillare reticolo parrocchiale per provvedere alle mansioni sociali dello stato; da qui l’attenzione anche alle condizioni materiali prevedendo la congrua per i parroci.
Una delle conseguenze maggiormente problematiche fu la chiusura di conventi e monasteri che esplicavano un’insostituibile catechesi, attività di predicazione e le missioni. La presenza dei religiosi costituiva uno stimolo anche per il clero. La nuova tipologia ecclesiastica anche nella diocesi di Capaccio fu sempre più basata sulla parrocchia e sul clero secolare, al quale si demandò ogni responsabilità nell’organizzare il culto. Religiosi e conventi, fino ad allora le grandi forze saldamente legate alla curia romana per controllare le campagne meridionali, furono ridotti di numero e ridimensionati nelle funzioni. La popolazione reagì negativamente alla soppressione: era abituata ad identificare la religione con l’azione di frati e monache; non protestò quando gli immobili furono usati per finalità civili, ma per alcuni atti di disgustosa irreligiosità perpetrati dalle autorità. Fu esorbitante il numero dei religiosi secolarizzati; ascritti al clero della parrocchia di origine, la loro presenza determinò problemi per la partecipazione alle rendite delbeneficio. Il popolo si vide privato delle guide più ascoltate nel regolare la pratica religiosa, per larga parte vissuta fuori dell’ambito e del controllo parrocchiale. Si radicava la dualistica tendenza tra la borghesia, favorevole alla soppressione dei conventi per impossessarsi del relativo patrimonio, e i contadini che erano soliti ricevere aiuti anche materiali dai religiosi. La struttura ecclesiastica, soprattutto perché parrocchie e curati non erano in grado di sostenere da soli le responsabilità dell’istruzione religiosa e della liturgia, tendeva ad indebolirsi ulteriormente.
Prive di beni, per le loro attività le parrocchie dipendevano dai contributi governativi; sovente era possibile mantenere il parroco solo grazie alla congrua. Le difficoltà economiche aggravavano le carenze pastorali; pur contando il 27,5% delle parrocchie nel 26% dei centri abitati della provincia e col 26,8% degli abitanti, la diocesi disponeva di una rendita lorda in ducati pari appena al 5,9%, che scendeva al 3,9% in riferimento alla netta. Il ridimensionamento del patrimonio fondiario ebbe evidenti conseguenze sul reclutamento del clero. I cadetti di famiglie titolate e borghesi, ossatura degli ecclesiastici nel Settecento per le funzioni culturali svolte, erano sempre meno attratti dalle prospettive della vita sacerdotale per l’evidente laicizzazione della società e per la radicale trasformazione del regime fondiario. La figura del prete legato alla parrocchia, espressione in prevalenza dei ceti più poveri, che nel sacerdozio intravedevano un’occasione di promozione sociale per la famiglia, si formava in seminario, quindi sotto il controllo vescovile, reso efficace dalla vigile collaborazione del governo. In tal modo chiesa e stato cercarono di venir a capo del particolarismo religioso che caratterizzava il cristianesimo cilentano.
Il ridimensionamento o la perdita di un beneficio autonomo, incentrato sul possesso fondiario, fu compensato con l’istituzione della congrua, arma in mano al governo per orientare e controllare la chiesa. I parroci ne ricavarono indubbi vantaggi, migliorando la propria condizione economica; ma il clero ricettizio, pletorico e particolaristico, decadde irrimediabilmente e con esso un aspetto precipuo della tipologia ecclesiastica diocesana. Al suo posto s’impose lentamente la figura del parroco culturalmente più preparato, collaboratore fidato nelle riforme socio-sanitarie ma anche nel controllo poliziesco della popolazione, pronto a far conoscere le direttive politiche ai fedeli spiegando dal pulpito leggi e disposizioni di polizia e inculcando sacro rispetto e fedeltà verso il potere costituito. Questa situazione favorì l’incontro tra stato e chiesa, sancito dal Concordato del 1818, che segnò la fine di un lungo periodo di controversie. Se consentiva ai vertici curiali di rafforzare le strutture canoniche delle diocesi, fece perdere alla chiesa locale i meccanismi di penetrazione nell’animo della gente, favorendo il processo di scristianizzazione culminato nella grave crisi del secolo successivo. Le esperienze rivoluzionarie e del concitato periodo napoleonico avevano lasciato profonde tracce su Roma e su Napoli. L’intesa doveva consentire un più efficace controllo delle pressioni economico-sociali e culturali, determinate dai mutamenti delle strutture fondiarie e dell’articolazioni dei ceti registratisi durante il decennio francese.(cont.)