Non sono poche lungo le navi, prima a vela e poi a motore, i battelli e le semplici barche spinte da robuste braccia di pescatori che nei secoli hanno attraversato quel tratto di mare che fascia le isole de Li Galli, le antiche Sirenuse dove Omero pose la residenza di quelle donne pesci capaci di ammaliare i naviganti con il loro dolcissimo canto. «Le sirene sono fanciulle marine che seducono i marinai con la bellezza del corpo e la dolcezza del canto» riporta un antico testo dell’ottavo secolo di ambiente anglosassone così come ricordava Edmond Faral filologo e romanziere francesce a cavallo tra XIX e XX secolo. E queste isole, la più grande delle quali vista dall’alto ha la forma di una sirena, erano sulla rotta di quanti, in ogni tempo, attraversato il golfo dei Ciclopi, dal Circeo si dirigevano verso Scilla e Cariddi. Piena mitologia fatta suggestivamente propria da Oscar Wilde ne “Il pescatore e la sua anima” o, ancora, da James Matthew Barrie che colloca le sirene nella laguna dell’isola che non c’è. Una malia che conquistò, in una notte di luna piena, il ballerino e coreografo Leonid Mjassine che volle acquistare quella abitabile, il Gallo lungo, per farne un luogo ove vivere la danza in purezza di animo e di corpo nell’infinità degli spazi mediterranei.
Un incantesimo che continua a conquistare intellettuali, artisti di multiforme ingegno e che non accenna a dismettere le sue armi ammaliatrici, oggi chiamate seduzione paesaggistica, ospitalità della gente che qui vive tutto l’anno, ambiente ecosostenibile e, perché no!, sapiente arte della cucina.
Così non meraviglia se, chiamato da un mecenate operatore turistico, sapiente e attento conoscitore di arti e di artisti, a Positano, di fronte alle isole delle Sirene, giunge Vicente Hernández, dalle lontane isole caraibiche, a bordo della sua immaginifica nave volante, ultimo viaggiatore, fatto salvo qualche non ancora emerso nauta dell’arte, di quella infinita serie di scrittori, pittori, artisti di vari “mestieri” che vi sono giunti continuando, se mai inconsciamente, quella stagione del Grande Tour, o Italienische Reise caro a Goethe e ai giovani mitteleuropei giunti sui territori del Royaume de Naples per conoscere, visivamente, il mondo classico, quello dei greci, di Parmenide e Zenone, nonché della opulenta Posidonia.
Vicente Hernández, giunge sui lidi del Mito nella tarda estate del 2019, su invito di Enzo Esposito, forse inconsapevole, ma certamente legittimo erede naturale dell’americana Edna Lewis e continuatore di quella magnifica stagione d’arte che la geniale ideatrice e curatrice dell’Art Work Shop aveva iniziato ai primi anni Cinquanta del secolo trascorso, protrattosi sino al 1973, oltre la sua morte. Fu una stagione ricca di personalità provenienti da ogni parte del mondo: si pensa a Redi Morgan, Sigmund Pollitzen, Roberto Scielzo, Peter Ruta, Ibrahim Kodra, Michele Theile, Ivan Zagorujko, il russo che, guardando quel panorama, amava esclamare: «Come è bello il mondo di Dio».
«Hernández è un giovane pittore cubano, originario di Batabanó un ‘pueblo pequeño’ sulla costa meridionale de L’Avana. Un pittore nel vero senso della parola, aperto a linguaggi attuali» ricorda Massimo Bignardi nel testo critico in catalogo di presentazione della mostra “Argonauta a Positano” allestita presso i locali del FRAC di Baronissi. E continua Bignardi: «Una pittura la sua, che affonda le radici nella cultura artistica caraibica».
Ciò, però non basta al cubano che, sicuramente rapito dall’antico quanto immaginario canto delle sirene, dipinge il suo viaggio su questi lidi volando con un fantasioso galeone a vele quadrate, come quelle di Colombo in rotta verso l’ignoto mondo nuovo, o una mongolfiera di più recente immaginazione. Vola Hernández sospeso tra il cielo e il mare del Mito e della storia, al di sopra di paesaggi di una costa giustamente definita Diva: volo dell’anima, sogno antico inseguito da Peter Pan, Campanellino, Capitan Uncino e quel fantasioso mondo che ha colorato l’infanzia di tanti giovani.
In un prologo alla monografia di Vicente Hernández, richiamato da Bignardi nel suo testo critico, Tony Piñera ha scritto: «Dipingi ad alta voce», aggiungendo più avanti che l’artista cubano «cattura tutto il possibile che può tradurre in pittura, in quel linguaggio muto dove le parole possono essere più forti, a volte dello stesso discorso, con quei segni che colloca tra superfici sfumate di forme e colori, un labirinto visivo che, nel tempo, ha raggiunto un posto importante nella pittura cubana».
Ecco il filo conduttore di una esposizione: una nave, un galeone crociato tanto simile a quello partito da Palos cinquecento e passa anni fa, o a quelli dell’antica, prima Repubblica marinara che solcavano il Mediterraneo all’ombra di tavole di antico splendore marinaresco. «Forse ad Amalfi le vele cortesi della Repubblica, “tavole” di paziente e antica civiltà, battono ancora visibili-invisibili nelle ore di vento del piccolo porto», a richiamo di Salvatore Quasimodo e del suo “Elogio di Amalfi”.
Scrive Bignardi a conclusione del testo critico: «Con la sua nave Hernández trasvola sulla realtà della pittura, dando senso alla sfuggente realtà della vita». Ed è il sogno immaginato, il canto immaginifico delle sirene, l’isola che non c’è… forse.
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