Per molti erano il capolinea di un’avventura, una fuga verso la libertà e la civiltà. Per tanti una lacerazione verso l’ignoto dell’emigrazione. Per tutti, o quasi, i giovani, il primo impatto con l’obbligo imposto dalla cartolina di precetto.
Per una nutrita schiera l’appuntamento quotidiano con il pendolarismo del lavoro: ERANO LE STAZIONI FERROVIARIE dove si scendeva dalle montagne e dalle colline dell’interno ai primissimi chiarori dell’alba, caracollando su mezzi di fortuna giù tra povere campagne di agricoltura di sussistenza. Le complici confidenze della sala d’aspetto, il caffè sorseggiato tra fili di fumo (sigarette, vapori, aliti), la minzione ai gabinetti pubblici, i binari lividi, lo stantuffo svaporante degli stantuffi del treno in arrivo, la mitria rossa del capostazione, la paletta verde, il fischio, lo sferragliare della partenza e le campagne arabescate di brina con gli alberi a contagiarti di fredda solitudine o di fresca solarità da scialo di fioritura, a seconda delle stagioni, a correrti incontro a filo di finestrino; sfumati fotogrammi di poesia della memoria! Sono le tante stazioncine aperte al mare e alle brevi pianure o chiuse nelle valli a ridosso di torrenti limacciosi d’inverno e aridi d’estate. I nomi hanno ritmato tappe importanti della vita dei cilentani: Capaccio/Roccadaspide, Ogliastro, Torchiara, Rutino, Omignano, Casalvelino, Caprioli, San Mauro La Bruca, Celle di Bulgheria, Torre Orsaia, Policastro. Oggi niente o quasi resta dell’antica vitalità: sportelli chiusi, sale d’attesa al degrado, sottopassi campi di esercitazione dei maniaci dei graffiti con la fregola dei messaggi. Si salvano i centri più grossi o baciati dal miracolo turistico: Agropoli, Vallo, Pisciotta/Palinuro, Sapri. Per il resto l’abbandono. Ai malcapitati viaggiatori lo squallore indifeso di soste senza un minimo di confort, con gli annunzi megafonati non si sa da dove né da chi. Una fredda lunarità tecnologica sperimentata nelle assolate e serene campagne del Sud. Le ho riviste tutte le stazioncine del mio Cilento qualche settimana fa, a viaggio a ritroso di memoria e a bagno di emozioni in compagnia di Pino Blasi, amico carissimo collega impareggiabile, direttore apprezzato di “Agire” e, quel che più conta, cilentano doc con nella mente e nel cuore la perenne lacerante nostalgia della comune terra di origine. Ci troviamo per appuntamento alla Stazione di Salerno. Il quarto binario. C’è una fiera vociante degli ultimi pendolari del turismo a conquista di mare pulito sulla costa dei miti e della storia. Ma il mio è feeling immediato e contagioso soprattutto con i tanti che portano sui volti il sole catturato sulle colline scoscese tra ficheti ed uliveti nella quotidiana fatica del vivere e nella parlata rasposa del mio dialetto. L’interregionale da Napoli per Cosenza arriva e parte con quindici minuti di ritardo: sono quasi d’obbligo da pagare all’inefficienza dei servizi nel nostro Sud. La città dilaga senza soluzione di continuità fino a Battipaglia, con la campagna mangiata a dismisura dalle caserme/dormitorio, dei condomini e dal disordine dei capannoni industriali, là dove, alcuni decenni fa, arance e mandarini accendevano palle di sole compatto al verde del fogliame degli agrumeti e geometrici vigneti gonfiavano umori zuccherini a grappoli di uva sanguinella. Per fortuna ridono ancora di verde i coltivi delle colline e delle montagne dei Picentini dove fiorì la nobile Picentia a testimonianza della prestigiosa storia degli Etruschi. Dopo Battipaglia la campagna a perdita d’occhio trasmigra verso le alture di Altavilla ed Albanella, avamposti di luce, che, per effetto ottico, si legano quasi ai massicci degli Alburni, le cui acque ingrossano il corso del Calore, dandogli dignità di fiume prima della confluenza con il Sele. Ed eccolo il fiume sacro alla mia terra, il placido “Silarus”, che ha raccolto dai displuvi dell’interno storia e storie dei lucani prima di miscelarle a lenta conquista della foce di quelle dei Greci, che qui approdarono a seguito di Giasone per onorare Era Argiva a perenne gloria di Poseidonia. La stazione di Capaccio è dolce lacerazione di ricordi da frequentazione. In lontananza la Basilica del Calpazio rifrange sole alle vetrate e da un avamposto di campagna la Madonna del Granato rievoca culti di fecondità pagana trasmigrati alla ritualità cristiana. Era Argiva, Cerere e la Madonna in un “continuum” di religiosità panica che ha fatto la storia del territorio nel segno della Magna Mater. Poco più di qualche minuto e la stazione di Paestum scatena emozioni intense da moviola della vita: A destra il Monte Soprano ed il Sottano si incurvano come una foglia di gelso a reggere, dondolandosi, il bozzolo di un baco da seta, come li fotografò con immagine suggestiva un grande poeta viaggiatore, Giuseppe Ungaretti. Dalla conca di collina digradante Capaccio capoluogo esalta rabesco di case, conventi e chiese la nobile storia di diocesi influente e principato potente. E mi figuro una delle mie tante passeggiate a viaggio a ritroso di memoria, come compagna solo l’eco dei passi lenti sull’acciottolato e la ressa alle porte del cuore e della mente un esercito d’ombre che reclamano vita: principi e baroni, vescovi e padri guardiani, nobili reazionari ed eroi rivoluzionari, professionisti ed artigiani ed i mille sudati mestieri di un popolo senza lavoro e senza terra fino all’assalto ai latifondi e conseguente riforma agraria, che, nello spazio di un decennio, rivoluzionò costumi, economia e vita di un territorio più di quanto non avessero fatto tutti i secoli precedenti messi insieme.
A destra Porta Sirena apre fuga di viale ombreggiato da cipressi a guglie a trafittura di cielo fino al delirio della bellezza delle colonne doriche del Tempio di Nettuno, meta dei viaggiatori del Grand Tour, di teste coronate e di intellettuali di tutto il mondo. A quando un Museo della Memoria da allestire nei locali dismessi della stazione, come reclama(va) con passione civile ed impegno culturale, Sergio Vecchio? Pochi chilometri— tra carciofeti, fragoleti e giovani frutteti ed ecco il Ponte sul Solofrone, l’altro fiume sacro della Piana di Paestum. Nasce lassù alle radici del Vesole. Nel mio paese di nascita, TRENTINARA, aperto al mare e ai venti, in bilico sui dirupi che minaccia in volo su Giungano. Nei giorni di scirocco l’acre della salsedine si posa sulle bacche di ginepri, lentischi e mirti che arabescano di verde delle pietre, anatre in cova ossificate dal tempo. Sfavilla nella gloria del sole il Solofrone e scivola a cascata a levigare altari di pietra ambrata con il carico di malinconia della poesia di Bernardino Rota. Nella gola di Tremonti risuona l’inno di battaglia di Spartaco, liberto eroe qui spentosi all’ultima battaglia. La stazioncina di Ogliastro è l’ultima postazione della pianura prima che il treno imbocchi l’ultima curva e mi spalanchi lo scenario della rada di Agropoli con il borgo antico che minaccia voli arditi verso orizzonti di infinito.
Ma questa è un’altra storia.
P.S.: Il pezzo è tratto dalla mia plaquette “VIAGGIO VERSO ILCILENTO – Plectica Edizioni – Dicembre 2006