di Rino Mele
Qui, a Montecorvino, un piccolo lago sotterraneo è coperto da un prato e la veste d’erba è fissata da dodici enormi anfore. Una scena teatrale che attende l’attore primordiale, vecchio, la testa rasata, o con lunghi capelli neri ed equini, il volto dipinto, le braccia di biacca e minio: un fiume d’argilla scorre intorno. Dietro ad ogni casa-anfora la memoria di una fornace, poi un’altra, e ancora, fino a formare un attendamento, una città di fuochi. La pioggia si converte in lingue rosa, viola, celeste (come l’alba). Lontano, nel grande specchio dell’orizzonte si riflette, e si ripete nel riflesso precedente, un fuoco che i veli d’acqua nell’allontanarsi esaltano: il fuoco evoca l’assoluta forza vivente della parola poetica (niente altro, più di essa, che possa sconvolgere il disegno del tempo, la morte che vi s’annida). Ma dove trovarla questa parola? Nella letteratura e nell’arte? Nel numero, in cui la scienza scava il suo bisogno di perfezione? Non nella fredda armonia dei versi -pure sembrano le forme che più ad essa s’avvicinano- ma nel silenzio, quello brutale del topo schiacciato dallo stridore delle ruote d’un camion, del bambino che a testa in giù cade nel pozzo, d’estate, del soldato ucciso alla sua prima uscita sul fronte. Quel silenzio improvviso e irraccontabile. Ad attraversare lo spazio (la nebbia cara che visitammo domani) si riconosce il proprio corpo, il suo apparire sul limite, fuori e dentro la rete dell’imprendibile: il destino ha la veste e le armi lievi d’un cacciatore, entra, esce dalle anfore, si siede alla base della grande fornace, sente la musica spegnersi e la ferocia avvicinarsi alla rete che ha teso da giorni. Intanto, gli operai apprestano i manufatti d’argilla, che versano bianchi nel cratere. Le dodici anfore sono le case del giorno, dilaniate e aperte: forse te ne sei appena allontanato, qualcuno ti dice che ne stai cercando il varco e urti la porta vuota.