Nelle relazioni economiche tra Stati, in particolar modo nell’ambito dei rapporti concernenti gli scambi commerciali, si dovrebbe perseguire un fine condiviso di reciproco vicendevole guadagno. Dalla storia dell’Africa emerge che, così com’è accaduto per gli altri Paesi in via di sviluppo, le politiche economiche intraprese nel commercio internazionale hanno approfittato frequentemente di uno stato di bisogno, avvantaggiando prevalentemente il contraente più forte. La frammentazione internazionale nel ciclo della produzione consente agli Stati più ricchi di scegliere le materie prime e la manodopera dove costano meno, determinando così il consueto squilibrio tra il proprio risparmio e il conseguente depauperamento del Paese sfruttato. Tale sistema di scambio ha legittimato, nei secoli, il costante impoverimento del continente africano che è stato depredato delle proprie risorse, proprio in ragione della ricchezza (soprattutto mineraria) della quale dispone. Quest’iniziativa economica incurante di un’equa distribuzione dei vantaggi continua a perpetrarsi ai danni dell’Africa, basti pensare allo squilibrio commerciale determinato negli ultimi anni dal piano imprenditoriale attuato dalla Cina che, insediatasi stabilmente nel continente africano per importarne le materie prime, sta garantendo (solo?) alle imprese nazionali gli approvvigionamenti necessari per il proprio progresso economico. Lo squilibrio è determinato dalla condizione di necessità che, privandola di un reale potere contrattuale, impone all’Africa di accettare condizioni non sempre convenienti, soprattutto se considerate (sul lungo periodo) dal punto di vista sociale e ambientale. La Cina, infatti, esattamente come gli altri Paesi che nel passato si sono avvalsi delle risorse dell’Africa, perseguendo esclusivamente la propria logica di guadagno, esporta i prodotti che le costano meno (ad esempio i macchinari) ma importa quelli che, come le materie prime, acquistati altrove avrebbero un prezzo maggiore. È evidente come questa dinamica reiterata e protratta nel tempo sottragga all’Africa i beni necessari per il proprio sviluppo, senza arricchirla adeguatamente (né, tantomeno, dotarla di opportunità alternative di crescita). Al contempo tale squilibrio economico è aggravato dall’assenza d’interventi normativi adeguati da parte delle istituzioni africane che dovrebbero, invece, intervenire con urgenza per gestire gravi problemi sociali e ambientali.
Serge Latouche, economista e filosofo francese, critico nei confronti del sistema economico odierno esclusivamente orientato a sfrenate politiche di guadagno, ha osservato che “La globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera. Infatti, se guardiamo la situazione dei Paesi in via di sviluppo emerge chiaramente il dato della violazione dei diritti umani e dell’inquinamento indiscriminato”.
Un chiaro effetto di tali considerazioni è la discarica di Mbeubeuss, nella provincia di Dakar, dove i proventi illeciti di uno smodato sistema capitalistico si producono attraverso lo sfruttamento minorile di bambini che, esposti a ogni rischio, operano in una terribile situazione di pericolo personale e di inquinamento ambientale.
Credo che la sola speranza per il nostro pianeta sia, come ha espresso l’insigne giurista Stefano Rodotà, che si inizi a progettare: “La globalizzazione attraverso i diritti, non attraverso i mercati”.