Era un ragazzo poco più che ventenne, nel bar di famiglia che gestivamo nel centro di Gromola veniva spesso un signore anziano che aveva passato parecchi mesi nei campi di concentramento nazisti. I suoi racconti calamitavano spesso la nostra attenzione e la nostra incredulità. Avevamo letto sui libri di scuola dell’orrore dei campi di concentramento, i cosiddetti Lager, dislocati nel centro dell’Europa, ma quando sentivamo le storie di questo signore rimanevamo a bocca aperta. Zio Michele Di Spirito era assegnatario di un podere dell’Ente di Riforma Agraria in Campania: più che meritato, lui che era ex combattente dell’esercito Italiano, aveva combattuto in Grecia e dopo l’8 settembre era stato catturato dai tedeschi e trasferito nel campo di Buchenwald. Diceva di essere stato fortunato perché molti dei suoi compagni non erano ritornati. Lo ricordo bene zio Michele, aveva un dente d’oro in bocca, messo dopo avvenuta libertà, ovviamente, e aveva sempre il sorriso e la battuta pronta. Era un po’ come esorcizzare l’orrore passato, ci ricordava a noi giovani il memento mori: “ricordati che devi morire” e noi ci scherzavamo sul suo scampato pericolo anche se molte volte diventavamo malinconici e riflessivi. La mattina veniva al bar dopo aver governato le sue mucche, spesso veniva con la casacca della prigionia, la famigerata casacca a strisce verticali bianche e azzurre che sembrava un pigiama. La scritta del lager campeggiava sul taschino sinistro. Lui la usava per lavorarci in mezzo alla terra, forse non se ne distaccava per cospargere di memoria i suoi compaesani e la gente che incontrava. Prendeva un bicchierino di Cynar, il suo liquore preferito, e si faceva il tressette con gli amici. Della prigionia ne parlava spesso e con tutti ma sempre con tono umoristico e non ti faceva pesare l’incontro con angustia. La sua frase ricorrente era: “Scorze di patate e chi te ne dava?” per far capire quanto atroce fosse la fame nei lager in quei tempi barbari come lui li definiva. Degli ebrei del campo ne parlava poco “quelli stavano in un’altra sezione” ma gli venivano le lacrime quanto pensava a come li sterminavano. Una mattina di fine anni ’80 Zio Michele morì. Dietro al barraccone che fungeva da fienile i suoi figli trovarono migliaia di bottiglie vuote di Cynar. Dopo alcuni mesi la moglie bruciò la casacca della prigionia dietro all’orto di casa. E per anni la sua testimonianza e la sua memoria è stata perduta. Antonio Pecoraro
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