Il risveglio, questo sabato mattina, all’indomani della prima libera uscita è un caleidoscopio di sensazioni. Vediamo: c’era il giallo dell’insegna, e il vociare sommesso, frammisto al tintinnio del ghiaccio nei bicchieri e quello dei bicchieri tra loro. C’era il via vai di Diego, e i saluti gomito a gomito. Il vento e gli occhi. Si, gli occhi. Quanto rimane come primo veicolo di un sorriso, per riconoscersi, per ritrovarsi. Siamo insieme, finalmente, nello spazio antistante il bistrot, seduti a debita distanza dagli altri, come in un circolo privato, ma fra molti che alimentano il proprio spazio di sicurezza condividendo il proprio respiro di sicurezza con affetti stabili, tanto che si finisce col sentirsi in un clan. Scattano, inevitabilmente, le valutazioni su quanto strano possa essere.
Non ci siamo mai illusi, forse, di agire il cambiamento.
In questi mesi di covid tanto abbiamo avuto da dire e da pensare su come l’ecosistema terra stesse anche velocemente riguadagnando un equilibrio, semplicemente perché noi ci eravamo fermati. Tanto disquisire sull’idealità di una società diversa, ma poi, sempre, la caduta, necessaria, come da un roccione a strapiombo sul mare, nelle realtà dei commercianti, dei cassintegrati, dei liberi professionisti che hanno stretto i denti, tirato le cinghia, ponendosi pazientemente in attesa, senza sapere cosa sarebbe stato di loro, delle loro attività, se alla ripresa li attendeva un “più forti di prima” o una fatica immane, per restare in piedi. Spesso entrambe le cose. La maggior parte di noi, predicatori buoni ma cattivi razzolanti, nel cambiamento ha sperato, ma non fa certo parte di Green Peace né di un’eletta schiera di illuminati in grado di direzionare le sorti del mondo.
Non appena ci è stato concesso siamo usciti per le strade, per salutare un amico che ha particolarmente sofferto la chiusura, per ridere dei giorni di quarantena con chi “in fondo per me è stato tutto uguale a sempre“, per ubriacarci di socialità, nonostante la paura. Eravamo forse spaventati dal contagio? Probabilmente no. A spaventarci era il disagio, conseguenza di una sospensione dell’abitudine ridiventata novità e in quanto novità capace di chiederci un atteggiamento ancora difensivo. Il mondo fuori come un’arena. Il regno del conflitto, dell’incontro- scontro con l’altro e con la realtà, anche quella del virus, avendo messo a manto un pelo troppo tenero in questi mesi di solitudine per resistere bene alle raffiche di vento gelido che tirano di là. Siamo usciti, indossando le nostre mascherine, titubanti sui saluti, incapaci di decifrare un nuovo codice di comunicazione nello stare insieme, per ritrovare i nostri luoghi, il baretto sotto casa, il pub più vicino. Qui non ci è sfuggito di notare sul volto seminascosto del barista la preoccupazione di lavorare in modo sicuro e di consentire che tutti i clienti si sentissero comunque a proprio agio. Un’impresa da titani, che si traduce in sguardi furtivi all’ambiente, alla distanza tra i tavoli, a volte, in piccoli richiami “all’ordine”. Dopo un paio di birre diventiamo indisciplinati, il covid è già lontano, abbastanza lontano da farci desiderare di toccare una spalla o la mano di un amico per scambiarci un cinque e dirsi che tutto è andato bene, che ce l’abbiamo fatta, senza tener conto del sudore sulla fronte del barman che, da solo, sta reggendo il peso della responsabilità di una sicurezza che è divenuta sociale. È la versione in fase due degli eroi da campo e in prima linea nelle corsie degli ospedali, dove l’unico modo per salvaguardarsi è salvaguardare. Una ripresa che pesa un macigno ma che riesce meglio ad ogni serata, con la pratica, con l’instaurarsi di nuove norme di comportamento, progressivamente accettate come sempre più “normali”, finché non ci sarà più da notarlo, finché davvero magari avremo appreso una nuova educazione civica, e saremo cittadini di un post pandemia, niente di più e niente di meno…normale.
Francesca Schiavo Rappo