Rientrammo all’imbrunire inzuppati fradici ed infreddoliti. All’ingresso del seminario la faccia burbera del Rettore non prometteva nulla di buono. Dovette cantarle di santa ragione al Vice, che era giovane, simpatico e cordiale. Soprattutto comprensivo e tollerante per le nostre marachelle infantili. Entusiasta del suo lavoro ed intraprendente fino all’incoscienza, di cui avevo dato prova anche in quella occasione. Ci aveva portato, in pieno febbraio, alla scalata del Gelbison fino alla spianata del Santuario, a circa 1800 metri di altezza. E furono spettacolo tutto da godere ontani e faggi a rami incurvati sotto il carico della neve. E fu battaglia tra opposte fazioni con la vampa alle gote e le mani arrossate a sagomare palle bianche che si spappolavano sulle tonache umidicce dei più grandi e sui paletot striminziti di noi piccoli. E fu visione di stupore l’intero Cilento tra colline e valli, paesi, masserie e campagne coltivate, torrenti e fiumi a tormentata conquista di mare lontano, con le testimonianze di miti e storia di Palinuro, Velia e Paestum, come amabilmente ci spiegava il Vice-Rettore, informato e colto, indicandoci i siti dalla balconata di San Bartolomeo. “Il Santuario della Madonna fu fondato, tanti secoli, dai monaci basiliani, che vennero dall’oriente, via mare, portandosi dietro il pietoso carico di sacre icone e libri di preghiera. Sfuggirono alle persecuzioni iconoclaste dell’imperatore Leone III Isaurico e trovarono rifugio tra le grotte delle nostre montagne inaccessibili. E vi fondarono laure, cenobi ed abbazie. E naturalmente chiese.”. Era un grande affabulatore il Vice-Rettore e devo anche a lui se, con gli anni, mi scattò il demone della curiositas della ricerca sul periodo bizantino della storia cilentana. E, spesso, ho viaggiato sulle orme dei monaci per i paesi dei bacini del Lambro e del Mingardo, ad inseguire testimonianza di igumeni colti e santi, di frati speciali a pestare salute dalle erbe officinali nelle farmacopee, di esperti agrimensori in saio a guidare contadini inesperti alla regimentazione delle acque, all’introduzione di nuove colture, alle tecniche di una agricoltura più redditizia. Ci torna ancora. E tra ruderi di abbazie e vecchie chiese ricche di memoria storica mi ritornano alla mente e risuonano nelle orecchie le affermazioni convinte di quel giovane prete nell’ampia spianata del Sacro Monte di Novi in un lontano giorno di febbraio con il candore della neve a fare da cornice. “Fu una bella pagina di storia religiosa e civile quella dei monaci Basiliani nel Cilento! Furono soppiantati dai Benedettini con la faziosa complicità del potere politico. E dovettero soccombere”. E si scurì in volto. Molti anni dopo nel rigore degli studi avrei trovato il perché di quel turbamento. Il processo di sbizantinizzazione del Cilento si attuò a colpi di mano. E non si andò tanto per il sottile nella lotta per il governo delle anime, ma soprattutto dell’economia del territorio, tra basiliani e benedettini. Nel nome del Signore naturalmente! Io alla Madonna del Monte c’ero già stato. Mi ci portò mamma nel pellegrinaggio a settembre. Camminammo un pomeriggio ed una notte, salvo brevi pause di ristoro e sosta. Arrivammo all’alba assonnati e stanchi con la “centa” come ex-voto, che, lungo l’interminabile viaggio, passava di testa in testa di donne nerborute ed un po’ invasate dalla devozione. E le candele intonse e colorate brillavano al primo sole del mattino su quel telaio di legno a forma di barca inghirlandata. Chiedemmo, come tutti, una grazia alla Madonna di Malta a custodia di stipa. Ce ne tornammo l’indomani. Ed il paese in festa di devozione accolse la “compagnia” (si chiamava, e si chiama, così il pellegrinaggio) nella chiesa illuminata, che risuonava dei canti dei pellegrini esausti e rauchi. Me ne ricordai anche quel giorno di febbraio, quando, dopo la giustificata intemerata del Rettore ed una parca, ma rifocillante, cena, ritrovai riposo e calore nel letto. E tra un colpo di tosse ed una preghiera il cuore volò, tra cielo e mare, per battere all’unisono con quello di mamma nella casa di pietra di Trentinara e quello di papà ancora prigioniero in Australia.
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