Questo settembre la diocesi di Vallo è stata benedetta da un dono prezioso: tre nuovi presbiteri. Qualcuno potrebbe dire: ebbene, quale la particolarità?
Erano decenni che tre cilentani non ricevevano l’ordine del presbiterato. Da qui il piacere di notare la circostanza e fare gli auguri ai novelli ordinati di essere per la comunità ciò che il nome indica e significa: presbiteroi, componenti del gruppo dei “più anziani”, anche se giovani ventiquattrenni come uno di loro. Non é un ossimoro! Giovane prete non rimanda alla funzione di amministratore del sacro, ma richiama il carattere che plasma un individuo e ne segna per sempre l’essere, esplicato col presiedere il culto, guidare la comunità, annunciare il Vangelo. L’uso comune, come se fosse un sinonimo del termine sacerdote non è appropriato. Nei suoi documenti il Concilio Vaticano II cerca di delineare la profonda differenza. Inoltre, nel Nuovo Testamento per anziani s’intendono i componenti di un consiglio che opera nelle comunità ebraiche della diaspora e le amministra. Gli esegeti riconoscono che al termine non viene mai attribuito il significato di solito riservato alla parola sacerdote. Del resto, anche nel Vangelo questa categoria non ha un buon rapporto con Gesù, impegnato a ridimensionare lo strapotere del Tempio e la tirannica valorizzazione della grande tradizione, a scapito della piccola tradizione, che anima la speranza di giustizia nei poveri della Galilea e che ha sempre trovato nei profeti i propri difensori.
Don, contrazione del latino dominus, è un titolo usato per i sacerdoti col rischio di evocare quanto Gesù riassume nella parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37), indicativa del fare superiore, freddo e distaccato di sacerdoti e leviti così come erano percepiti dal popolo duemila anni fa, e non solo. Secondo i testi biblici i sacerdoti ebraici svolgevano diverse funzioni. La più importante era quella sacrificale-cultuale, cioè offrire sacrifici a Dio. Il legame tra sacerdoti e tempio era così stretto che la sua distruzione ha implicato la scomparsa. Altre funzioni erano la oracolare e la divinatoria; mentre la giuridica progressivamente fu assunta dai dottori della legge e dagli scribi. Radicato era il convincimento che il sacerdote dovesse essere il mediatore, il ponte tra il mondo profano, comune e terreno del popolo e quello sacro della divinità per cui poteva esercitare la funzione solo rispettando minuziosamente la purità legale.
Questi riferimenti storico-esegetici sono utili per comprendere la vera identità dei presbiteri, la cui coscienza del servizio li rende assimilabili al pastore evangelico, guida del popolo di Dio. Una evoluzione nella terminologia e nelle funzioni comincia a registrarsi nel secondo secolo dell’era cristiana di pari passo con l’affermarsi dell’episcopato monarchico. Tuttavia, anche in questo caso il vescovo guida la comunità a lui affidata collaborato dai presbiteri (questo è il termine usato), a lui uniti “come le corde alla cetra”, scrivono i primi Padri, condizione per poter elevare a Dio un melodioso concerto!
Dopo l’editto di Milano, col progressivo affermasi della religione cristiana istituzionalizzata, si determina un radicale mutamento. Determinante è l’influsso del monachesimo, individuato come modello di vita anche per presbiteri e che trova la sua prima istituzionalizzazione con papa Gregorio I, non a caso un monaco. Nei secoli successivi si è accentuata la loro funzione liturgica; intanto, da collegio di collaboratori del vescovo, diventano rappresentanti e sostituti, come è attestato proprio nella diocesi di Capaccio. Di conseguenza, comincia a prevalere l’uso del termine sacerdote, garante della civiltà terrena, oltre che evangelica, visione spirituale e materiale che si radica elaborando il concetto medievale di società coercitivamente cristiana, In essa un compito sempre più autorevole acquista chi distribuisce le cose sacre. Costoro sono annoverati nel clero per contraddistinguere la porzione eletta dei fedeli, alla quale spetta una eredità in cielo, conferendo un significato metaforico a quello concretissimo del termine greco. Tuttavia, nonostante le riforme, tra le quali emerge quella gregoriana per sollecitare le qualità morali e culturali dei sacerdoti, per secoli si susseguono reiterati interventi e si propone l’esempio di ordini religiosi come i cluniacensi, i cisterciensi, i camaldolesi, riforme ispirate sempre a modelli monastici, ma con scarso successo, come del resto per il celibato imposto ai preti della cristianità occidentale, anche se si registrano resistenze non solo in Italia meridionale, ma anche a Milano, dove continuano ad essere scelti anche uomini sposati.
Un primo timido mutamento si ha con gli ordini mendicanti, il cui stile pastorale comincia ad incidere sulla cura d’anime e sulla predicazione. Sono note le denunce di Lutero per la mancanza di preparazione culturale e il basso livello morale dei sacerdoti, situazione emersa già negli anni della riforma cattolica prima della Riforma, come ha dimostrato Jedin. Il Concilio di Trento dispone la formazione dei preti in seminario sottoponendoli ad un percorso preso a prestito in particolare dai gesuiti. Ma il seminario tridentino nei pressi della cattedrale ed ancora collegato alle dinamiche sociali della città è una istituzione che non tutte le diocesi possono sostenere. Nei numeri precedenti di questo periodico si è fatto riferimento alle difficoltà dei vescovi di Capaccio-Vallo in proposito.
Per l’influenza delle vicende storiche, la chiesa si arrocca e ritiene il seminario indispensabile per preservare i chierici da influssi negativi. In ambienti rigidamente vigilati, si sottopongono i giovani ad una solida disciplina, che raramente valorizza l’iniziativa personale, mentre lo studio secondo i criteri di uno teologia neoscolastica rende difficile il dialogo con la cultura contemporanea. Del resto, normalmente si preparano i titolari per le parrocchie rurali col compito di contrastare l’avanzare dell’industrializzazione, la piaga di una urbanizzazione che scompagina le famiglie e di una secolarizzazione che avvelena le coscienze. Il prete diventa il testimone di una tradizione difesa con determinazione e nostalgia, funzione che lo rende sempre più marginale.
La crisi scoppia già prima del Vaticano II, il cui rinnovamento ecclesiologico ha tentato d’imprimere impulso alla comunione ecclesiale. Ne è derivata l’enfasi sul presbitero non più figura individuale, ma agente della cura pastorale, coadiuvato dai collaboratori in parrocchia, a pieno titolo componente del presbiterio diocesano. L’evolversi delle esperienze in un contesto di globalizzazione pone tante domande sollecitando nuovi modelli nel rapporto tra presbiteri e laici; ma in genere si è risposto con una tendenza alla chiusura, se si analizza con rispettosa lucidità la Ordinatio sacerdotalis del 1994, documento il cui valore suscita perplessità per la pretesa d’intransigente validità non essendo stata una dichiarazione ex cathedra secondo le norme fissate dal Concilio Vaticano I.
Rispetto a questo funzione, al presbitero si richiede, proprio perché la maturità acquisita per età o per studio e la formazione lo consentono a chi vi fa parte, di essere il vivificante animatore di una tradizione culturale, etica, sociale e comportamentale che valorizza al massimo le caratteristiche di un popolo. Da qui la felice rilevanza di essere nati e, quindi, abituati a leggere nella mente di un popolo al quale si appartiene e di cui si è espressione. Ne deriva anche l’impegno ad animare un dinamico presbiterio, del quale si sente urgente bisogno per consentire alla cetra cilentana d’intonare il suo inno, come si legge nella scrittura, grazie agli armoniosi accordi suonati da tutti i protagonisti che ne hanno titolo, a partire dal maestro di orchestra.
Questo impegno aiuta a non maledire i tempi correnti per chiudersi in una presunta torre d’avorio, convinti che non si stia sperimentando la fine del cristianesimo, ma la sua rinascita se si pone Gesù Cristo al centro di ogni situazione e problema. Le beatitudini da lui annunziate e rese credibili dalla sua coerente scelta della croce sono un dono generoso che aiuta ad essere fratelli. Così si rende credibile l’annuncio del Vangelo, una proposta da non imporre per richiamare l’attenzione anche dei lontani . Ad essi va presentato il maestro di Nazaret incarnandolo nella mentalità e usando linguaggi che la gente comune riesce a comprendere. Così la parrocchia si trasforma nel luogo dove si sperimenta, meditandola, la salvezza. Gli uomini e le donne che vi partecipano non vanno usati come ausiliari quando si ritiene utile, ma aiutati a scegliere di divenire collaboratori responsabili.
Un ultima, pressante richiesta nel reiterare gli auguri a questi tre giovani presbiteri è un gesto di attenzione per i presbiteri anziani perché non siano considerati solo dei vecchi inutili, come tante volte appare o si può percepire. Anche se fumigante, essi hanno consegnato il cero ricevuto nei decenni precedenti. I giovani hanno l’opportunità di risvegliarne la fiammella, atto di carità verso il popolo, ma anche un piccolo gesto di riconoscenza verso chi li ha preceduti ed ha sperato di vivere in un presbiterio più dinamico, vero atto di fraternità, quella che si attende di vedere esaltata da papa Francesco nella sua imminente enciclica.
L.R.