Vite, uva, vino sono simboli ai quali Gesù fa spesso riferimento; non deve meravigliare quindi se da tre domeniche nella celebrazione della Parola si parla della vigna. Nel descrivere la relazione tra Dio e popolo Isaia usa questa immagine per indicare gli Israeliti, amati dal Padre anche se causa di continue delusioni perché producono solo amari chicchi d’uva selvatica benché il Signore abbia curato bene i filari. Il passo del profeta può essere diviso in due parti: nella prima descrive la vigna, dono al popolo dell’alleanza, un canto d’amore; nella seconda mette a confronto le attese di Dio e l’incapacità ed i limiti dell’umanità. Il brano del vangelo riecheggia la prima lettura, ma l’attenzione passa dalla vigna ai vignaioli, ai quali il padrone invia per due volte i servi per ritirare il raccolto, ma inutilmente; ecco perché manda il figlio con risultati catastrofici: viene ucciso!
Le ombre della mancata collaborazione alla Salvezza non inducono il Signore a dimenticarsi dell’uomo; la sterile vita di quest’ultimo non vanifica il progetto divino che, alla fine, risulta più forte dei tanti tradimenti. E’ il contesto nel quale l’evangelista Matteo inserisce il racconto collocandolo alla vigilia della passione di Gesù. Questi dimostra di essere cosciente della propria missione di Figlio inviato; intanto risulta evidente la conclusione della parabola: la vigna, tolta ai capi del popolo della Promessa, sarà data ad una nuova collettività, la comunità dei poveri e dei miti delineata nel Vangelo.
Anche oggi i raccolti nei campi del Signore e la vendemmia della grazia sono insidiati ed in un modo ancora più subdolo. Si fa ricorso alla violenza del non ascolto, al reiterato rifiuto di prestare attenzione, alla progressiva emarginazione, alla sottile calunnia o al dichiarato disprezzo, mentre la manipolazione di perfidi vignaioli nella Chiesa vanifica la caritatevole azione di chi esercita autorità.
E’ una situazione che c’interpella continuamente; costituisce anche un esame di coscienza circa il progressivo affievolimento della nostra fede, il liquefarsi della testimonianza circa i valori cristiani, il raffreddarsi della vitalità missionaria. Ne deriva l’eventualità, non troppo remota, che la vigna possa essere affidata ad altri. E’ già avvenuto in passato e non solo con gli Ebrei. Tanti popoli cristiani una volta residenti nella mezza luna fertile dell’Africa del Nord e dell’Asia si son visti privare del dono della vigna. E’il rischio che corre l’opulento, sfiduciato, stanco e liquido Occidente al quale si rivolgono i poveri del mondo ricevendo un sostanziale rifiuto alla richiesta di compassione, comprensione ed aiuto concreto.
A noi è assegnata la responsabilità della risposta al quesito: siamo capaci di continuare ad apprezzare quanto il Signore ha fatto per l’umanità e gustare il vino inebriante della festa che redime?
Mentre riflettiamo su questo punto dobbiamo ricordare che siamo oggetto della pazienza di Dio. Egli si attende una sinergia di relazione tra vigna e vignaiolo perché generi un amore profondo, icona di quello tra Dio e il suo popolo. La Chiesa deve continuare a trasmettere il messaggio dell’immensa misericordia del Signore, pronto a donare il Figlio per la salvezza di tutti.