Vi è, nella periferia di molte città, una insistenza di opifici che vengono, generalmente, catalogati come “archeologia industriale”: capannoni, fabbriche, “sopravvissuti” allo svilimento e scomparsa di una funzione produttiva, simboli di un depauperamento del tessuto sociale, produttivo ed economico di un territorio. Negli anni l’Italia ha dovuto arretrare i suoi bastioni industriali, ma non ha saputo (o voluto?) riutilizzare quelle strutture per una nuova, immaginabile ripresa di un’area, di un territorio dando ai suoi abitanti nuove speranze. Così quelle vecchie (e a volte antiche) fabbriche, una volta ricolme di ritmi produttivi, oggi mostrano esterni perimetrali con mattoni sbeccati a dominio di erbacce, intonaci cadenti, ciminiere fredde ed erte verso un cielo senza futuro, finestre, prive di infissi o con vetri rotti, che si spalancano su un vuoto interno dove mura e pilastri parlano di un tempo che fu.
Di fronte a questa “bellezza clandestina” Antonio Caporaso e Jacopo Naddeo, antitesi generazionale di fotografi-sognatori, hanno pensato di mettere in scena una “disobbedienza civile”: hanno osservato, scrutato, meditato, fotografato quelle sopravvivenze di un progetto Italia (o Sud) rivelatosi utopia, ed hanno messo in mostra con “Urbs picta”, al Frac di Baronissi, quegli scatti (una quarantina, per la verità, non tutte le centinaia realizzati) quasi a denuncia di una assuefatta e scontata noncuranza. Sono i resti di una civiltà industriale esistente intorno alle aree (in)urbane di Salerno, dove negli anni cinquanta e sessanta si immaginò un futuro; si sacrificarono ad esso intere aree floridamente agricole e si sacrificò la società post-industriale a un’illusione della modernità.
“Perché queste fatiscenti strutture – si chiede Antonio Caporaso con un breve, ma intenso scritto in un pieghevole che accompagna la mostra – non possono tornare ad essere bene comune e produrre nuove economie, riqualificando le zone che le ospitano?” Domanda legittima, cui segue, ovviamente, un’altra: quale è la strada per recuperare quelle strutture alla collettività?
E mentre, immediatamente, la mente del fruitore della mostra o del lettore del testo di Caporaso corre ad interventi economici e strutturali, i due fotografi pensano ad una offerta culturale, attraverso quei giovani scatenati per “l’arte pubblica senza costi” che vengono chiamati writers, ma che sembra più giusto chiamarli “franchi-artisti di strada”, i quali potrebbero rianimare, far tornare a nuova vita quei luoghi, simboli di una precisa epoca storica. “Noi abbiamo sognato pezzi di muro – scrive Caporaso – che diventano opere da tutelare nel ricordo di quella che rappresenta un ciclo della storia: dall’apice dello sviluppo industriale alla profonda crisi dei nostri giorni”. D’altra parte altre città in Italia (leggasi Napoli, Milano, Roma, Catania, Palermo) hanno riqualificato gli antichi siti industriali riconvertendo e riconducendo all’arte le vecchie, ma mai obsolete strutture industriali. Dicevano i latini (o, secondo altri, S. Agostino) “Si isti et ille, cur non ego?”. D’altra parte Salerno non ha l’ambizione di voler essere una città europea? Questa della riqualificazione artistica di vecchi e abbandonati contenitori, potrebbe essere la strada giusta. E non c’è bisogno di abbattere e ricostruire: bisogna solo sfruttare e rilanciare l’esistente. Forse è un discorso difficile da comprendere da parte di chi deve! “Ma a volte un sogno, un’utopia si può avverare anche tra l’incuria e l’abbandono” dicono i due fotografi-sognatori.