Sabato 22 maggio scorso, con il giuramento dei componenti la commissione diocesana avvenuto sulla tomba dell’Apostolo Andrea nella Cattedrale di Amalfi, ha preso avvio la fase diocesana per la canonizzazione di Mons. Ercolano Marini, per trent’anni Arcivescovo della città già prima Repubblica Marinara. Un rito semplice, così come previsto da Santa Romana Chiesa, che vuole iniziare la ricerca di una vita vissuta “in modo eroico” dai luoghi dove il “candidato” ha svolto la parte più importante della sua missione terrena.
Mons. Ercolano Marini, le cui spoglie riposano nella cripta della Cattedrale, fu Arcivescovo di Amalfi dal 1915 al 1945, vivendo, insieme alla città, le due grandi guerre mondiali del secolo scorso. La presenza di Mons. Marini per Amalfi fu di grande importanza per quegli anni che certamente non furono facili, visto il contesto in cui ci si muoveva. Non va dimenticato, tra l’altro, che la Costiera Amalfitana fu mèta di numerosi rifugiati dalla storia provenienti dai due grandi totalitarismi del Novecento: il comunismo e il nazismo.
Mons. Marini era nato nella stessa località di Enrico Mattei, Matelica in provincia di Macerata, il 21 novembre 1866. Dopo gli studi nel seminario di Fabriano, fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1889. Laureato in teologia a Bologna il suo primo apostolato fu come parroco, poi canonico e quindi priore della Cattedrale di Terni. Dal 13 gennaio 1901 fu vicario generale del vescovo di Spoleto sino al 1904 quando venne eletto vescovo titolare di Archelaide in Palestina; consacrato il 31 luglio successivo fu trasferito a Norcia l’11 dicembre 1905 dove si impegnò per veder ultimata la sistemazione e l’abbellimento della cripta di S. Benedetto, ove il Santo fondatore e la sorella S. Scolastica videro la luce nello stesso giorno e nella stessa ora.
Papa Benedetto XV il 2 giugno del 1915 lo promosse Arcivescovo assegnandogli l’Arcidiocesi di Amalfi dove rimase sino al 3 ottobre 1945.
Nella città costiera Mons. Marini giunse mentre era in corso il primo grande conflitto mondiale, quella grande guerra che portò non pochi lutti e devastazioni, soprattutto morali e sociali, all’intera nazione, benché si svolgesse lontana dai territori meridionali, impoveriti dei suoi giovani chiamati alle armi. La presenza di Mons. Marini si rivelò subito importante per la piccola comunità amalfitana. Quando giunse ad Amalfi era accompagnato dalla fama di brillante oratore e raffinato scrittore, che aveva dato alle stampe numerose sue opere, tra le quali non poche lettere pastorali, lettere che in genere vengono emesse dai vescovi in particolari momenti della vita ecclesiastica o religiosa e sono indirizzate “al clero e al popolo di Dio”.
Il lungo episcopato amalfitano fu caratterizzato dai due già citati conflitti mondiali, ma anche da gravi calamità naturali, eventi nei quali Mons. Marini mostrò tutta la sua sensibilità di pastore. Era, infatti, il 31 luglio del 1919, anno in cui era in pieno svolgimento la devastante influenza spagnola, pandemia che provocò una decina di milioni di morti nel mondo, quando inaugurò l’Orfanatrofio in un edificio donatogli dalla famiglia Torre e nel quale volle istituire una scuola di formazione professionale per ebanisti e meccanici, proprio per garantire un futuro ai piccoli e giovani ospiti. Un’opera, si disse all’epoca, realizzata con coraggio e fede nella Provvidenza divina, “senza mezzi, senza poteri, senza validi aiuti”, che poté accogliere orfani di guerra e fanciulli e ragazzi “privi della carezza paterna o materna”.
Si era appena conclusa la grande guerra, che alla paterna attenzione di Mons. Marini vi fu la condizione femminile, trattata in termini molto forti nella lettera pastorale dedicata al triste problema della dignità delle donne e delle condizioni in cui versavano. In sostanza il presule era stato negativamente colpito da una fotografia ad uso dei turisti nella quale erano riprodotte delle “donne portanti al collo lunghi barili e una verga in mano e sotto la scritta: ‘Costumi di Amalfi’”. La reazione del Vescovo fu quasi immediata e, nella lettera pastorale, tra l’altro scrisse: “Pare che una condanna pesi ancora sulle donne dei nostri villaggi. Curve sotto inverosimili pesi, esse discendono alla valle per innumere multiformi scale sconnesse, per sentieri rocciosi, levigati dai quotidiani sudori di doglia, correndo per conservare l’equilibrio, e spesso cantando, quasi a mostrare che nello schiacciamento del corpo esse conservano l’anima libera a elevarsi a nobili sensi e a delicati pensieri”. Una paterna sollecitudine che non lasciò spazio a equivoci e aprì un dibattito certamente interessante. Un giornalista dell’epoca scrisse: “Questo prelato ha una mente nutrita di forti studi e un’anima non insensibile alle ansie e alle speranze del popolo. La sua missione non si esercita, non si esaurisce nell’ambito della gloriosa cattedrale, ma va oltre l’altare, oltre il suo trono; e il suo spirito vaga per le vie, come a sollevare miserie, come a rinnovare pace alla gente affaticata e pensosa”.
Erano trascorsi 30 anni di guida pastorale nell’Arcidiocesi di Amalfi, così, durante una udienza privata, Mons. Marini chiese Papa Pio XII di volerlo dispensare da quell’incarico gravoso in quanto ormai sentiva “il bisogno di solitudine e di silenzio”. Così si ritirò nella Badia di Finalpia a Finale Ligure in provincia di Savona.
Nel commosso discorso di addio, il 30 settembre 1945, in una cattedrale gremita di popolo, – ricorda Sigismondo Nastri – tracciò il consuntivo della sua attività: “Abbracciando in una visione di volo la vita pastorale svoltasi nel lungo periodo, mi riappare in soavità rinnovata la vostra adesione alle mie iniziative e il vostro affetto devoto, che è culminato nella celebrazione solenne dei miei giubilei e del quarantesimo del mio episcopato. Ma, insieme con l’affermazione del vostro filiale attaccamento, così generale e costante, non potevano mancare e non sono mancate ansie, incomprensioni ed amarezze, in cui, logorandosi, la mia vita si è venuta consumando come sopra un altare: ad immolandum Domino veni!”.
Avendo già venduto la preziosa croce episcopale, nel settembre 1945, prima di lasciare la Diocesi chiamò il suo segretario e gli disse di vendere alcuni pezzi di posateria d’argento, forse le ultime cose da poter vendere. Il giorno seguente diede al prelato un elenco di famiglie da soccorrere e la relativa somma da lasciare ad ognuna. Quindi aggiunse: “Ora non ho più nulla, lascio la Diocesi povero, per vivere i miei ultimi anni, come ho sempre desiderato di vivere, povero come Gesù”.
Ricorda ancora Sigismondo Nastri, che Mons. Ercolano Marini morì a Roma, nell’Istituto della Fraternità Sacerdotale, dove si era ritirato, il 16 novembre del 1950. La mattina del 19, domenica, la salma fu trasportata ad Amalfi, accompagnata dai nipoti Pietro e Remo Marini. Scortata da Carabinieri in motocicletta, giunse in città alle quattro del pomeriggio, “accolta trionfalmente, da due ali di popolo”.
Nel suo testamento spirituale Mons. Marini aveva annotato: “Nulla possiedo, né stabili, né oggetti preziosi, né titoli di Stato, né moneta contante. Come sono grato al Signore dello stato di povertà, in cui lascio la terra!”.
Non pochi sono stati gli auspici di canonizzazione venuti, in questi anni, dalla popolazione amalfitana. Già nel 1991, nel corso di una cerimonia rievocativa in cattedrale, il compianto on. Francesco Amodio, di Mons. Marini diceva: “Mente e sepulchro adhuc clamat Gloria Tibi Trinitas, nel Cielo il Suo spirito è tuffato in eterno nei gaudi del Dio Uno e Trino. Sorgerà il giorno in cui anche monsignor Marini potrà essere annoverato tra i Santi che noi veneriamo? Noi formuliamo il voto e l’augurio”. Un mese fa, Mons. Orazio Soricelli, Arcivescovo di Amalfi e Cava de’ Tirreni, sulla tomba dell’Apostolo Andrea ha dato inizio alla fase diocesana della causa di canonizzazione di Mons. Ercolano Marini, tra la gioia degli amalfitani, molti dei quali, pur non avendolo conosciuto, sostano in preghiera avanti al suo sepolcro.
Vito Pinto