Gli echi della rivoluzione francese e le concitate esperienze del periodo napoleonico determinarono una radicale frattura in un’area ancora ai margini del processo sociopolitico che infiammava l’Europa. Nella prospettiva dei tempi lunghi a trarne vantaggio fu anche la Chiesa perché riuscì a porre riparo a molti problemi che condizionavano la sua azione. Aiutata dallo Stato, essa ridimensionò il particolarismo religioso. L’autorità civile demandò ai sacerdoti compiti di pubblico funzionario del culto e di animatore delle attività sociali. I parroci furono sollecitati a prodigarsi perché il popolo accettasse la vaccinazione, favorisse l’igiene e la carità pubblica in occasione di calamità.
Le famiglie di notabili, che nel decennio consolidarono il potere economico, a fine Settecento erano già titolari di un consistente patrimonio e potevano contare su una rete di parenti, che agevolava il controllo delle cariche amministrative nelle università, di dignità e prebende ecclesiastiche nelle ricettizie e nella curia vescovile, dei diritti feudali appaltati dai baroni. Il prestigio sociale tendeva ad identificarsi con i tomoli di terra posseduti. Il nuovo ordine borghese si fondava su una codificazione e una cifra etica che ponevano a base la roba; perciò, aspiravano al titolo di proprietario il coltivatore agiato, l’affermato professionista, il mercante e l’artigiano. Dalla fine del XVIII secolo erano in atto costanti che rimarranno tali fino alla seconda guerra mondiale: flessione della popolazione nelle aree collinari, incremento di quelle costiere e pianeggianti, in precedenza quasi del tutto spopolate per cause belliche e per l’imperversare della malaria. Le difficoltà di approvvigionamento erano determinate anche dall’arretratezza della pratica agricola; criteri di rotazione e mancanza di concimi riducevano l’utilizzazione degli spazi: demanio, foreste, attività silvo-pastorale regolate da ritmi stagionali condizionavano i lavori. Una miriade di paesi e casali, arroccati sul cocuzzolo di qualche collina e testimonianza di una asfittica vita materiale, era condizionata dai carenti ritmi produttivi. L’ambiente pativa le conseguenze di squilibri tra regione montana interna e la costa. Il quadro di riferimento economico soprintendeva alle manifestazioni culturali del singolo e dei ceti in un contesto di estrema rarefazione delle relazioni, in termini di potere locale espresse con l’imperante paternalismo.
I contadini, coinvolti solo parzialmente dal processo istituzionale dello Stato moderno, vi partecipavano portando istanze tradizionali e conservatrici, quali il frazionismo economico proprio dell’azienda rurale mediterranea, i contrasti tra esigenze della pastorizia e dell’allevamento, i particolarismi di superate forme di potere; tuttavia, la pressione demografica ingenerava lenti mutamenti facendo espandere le terre coltivate. L’esuberante risorsa di manodopera consentiva terrazzamenti e dissodamenti, anche se con rese decrescenti. Le esigenze socio-economiche non trovarono subito riscontro nei programmi di riforma; perciò, ancora agli inizi del XIX secolo la protesta non fu mediata da rappresentanze politiche, ma trovò sfogo in tradizionali forme di ribellismo. Il dato confermava il ritardo, la debolezza e le contraddizioni della società locale. L’impatto del regime napoleonico e delle sue evidenti accentuazioni burocratiche e livellatrici con un’economia sconvolta da forti tensioni tra borghesia emergente e masse rurali non poteva risultare più drammatico. Ideologia e motivazioni politiche contingenti restavano sullo sfondo rispetto al grande incendio del brigantaggio, non ne costituiva la motivazione di fondo. La sua eccezionale virulenza rimandava al sovrapporsi di due fattori diversi, uno congiunturale e l’altro strutturale: il primo costituito dall’invasione, dalla caduta della dinastia, dal crollo delle fatiscenti strutture materiali e mentali dell’antico regime; l’altro proprio dei tempi lunghi della storia.
Nella diocesi di Capaccio a mons. Torrusio successe Filippo Speranza, anch’egli originario di un paese del Cilento. Gli orientamenti personali, documentati dalla corrispondenza intercorsa con i familiari dal 1767 al 1834, fanno emergere la sua mentalità borghese. Tenace custode della privacy, egli è sensibile all’incremento della “roba” e al prestigio familiare mediante una vigile politica matrimoniale per salvaguardare il patrimonio del casato. Fin da giovane si prese cura dei fratelli in assenza del padre, impegnato ad espletare le funzioni di governatore feudale. Il suo codice etico-comportamentale richiamava la necessità di prestare attenzione agli interessi di casa e “non fare spese e spesarelle, ma (… ) con pazienza soffrire quel che (…) giova in appresso”, badando “a conservare e lucrare dieci carlini”. Da Napoli, dove studiava, informava dei pericoli che minacciavano i beni familiari e invitava il padre a ritirarsi in paese per meglio amministrarli, consigliando le colture richieste dal mercato, in particolare uliveti. Al programma avrebbero dovuto attenersi gli altri membri della famiglia, pronti al sacrificio per accrescere il patrimonio.
Mons. Speranza non partecipò attivamente, come il predecessore, alle tormentate vicende del periodo; senza privilegiare il potere statale, al quale in ogni caso non fu indifferente, a volte seppe prendere le distanze, mostrando un’insospettata autonomia di giudizio, testimoniata dal rifiuto di procedere, come pretendeva il generale Del Carretto, alla sconsacrazione del canonico De Luca per procedere alla sua esecuzione dopo i moti del 1828.
Biografia, mentalità, azione di governo pastorale di questo presule costituiscono un’ottima spia per cogliere anche il livello di spiritualità, religiosità, aspirazioni, convincimenti e sentimenti del clero e dei fedeli in una diocesi, per quasi quarant’anni guidata da ordinari originari della zona, occasione mai verificatasi prima e non ripetutasi in seguito.
L’aurea mediocritas, resa sicura dal patrimonio, e la pace bucolica del paese costituivano aspirazioni prioritarie rispetto agli ideali politici di mons. Speranza. Le vicende personali e familiari si riflettevano anche sui suoi convincimenti politici. Nel 1820, quando scoppiarono i moti, mise in guardia il fratello arciprete contro gli abitanti di Laurito ed Alfano; si era proposto di scrivere una lettera pastorale per informare il popolo dei pericoli carbonari e delle aporie della costituzione in “tempi, che tutti vorrebbero ufficj, e specilm.te chi nulla possiede”. Pur avendo vissuto il periodo napoleonico e la restaurazione, egli rimase legato a modelli pre-rivoluzionari; condannò i disordini, convinto che “la Commedia” terminasse grazie alle truppe austriache, che avrebbero posto fine alla “tempesta e pericoli”. Con una punta di soddisfazione annotava: “Ieri furono carcerati dalli tedeschi, che sono nel Vallo 70 persone, che erano andate, come una specie di Convocio a zappare in luoghi da loro voluti p. demaniali, così consigliati da galantuomini spiantati”.
Le espressioni, sunto di giudizi su alcune vicende del 1820-21 nella diocesi, caratterizzano un vescovo-galantuomo, la cui famiglia ad Alfano é coinvolta nelle liti demaniali. Di questi moti il presule coglie l’elemento di disordine e la minaccia alla proprietà, per cui non esita a celebrare la fine della rivoluzione.
La pratica religiosa e le manifestazioni di fede si erano trasformate in strumento di potere; i patrimoni sacri in occasione per godere dei privilegi riconosciuti all’autorità ecclesiastica. Le riforme del decennio francese posero fine a questa ragnatela di rapporti, opportunità, interessi utilizzati da una chiesa legata alla rendita agraria e condizionata da strategie familiari funzionali al controllo dei paesi mediante il sistema di patronage. (cont.)