Le vicende della rivoluzione del 1799 e della controrivoluzione sanfedista non sono un fatto isolato ed estemporaneo. Le manifestazioni rimandano ai rapporti di forza tra ceti evolutisi con le timide riforme di fine Settecento e costituiscono anche una risposta alle sollecitazioni della rivoluzione francese. I giacobini meridionali, pur divisi tra moderati e radicali, rimangono accomunati da stretti legami economico-culturali e per la coscienza di essere dei patrioti, aspetto che contraddistingue anche la generosa e disordinata azione di tanti studenti cilentani democratizzatori dei loro paesi, partecipi di una rivoluzione che si riverbera nel loro contesto quotidiano, trasformandosi in una formativa esperienza per acquistare coscienza circa le modalità di gruppo dirigente da svolgere in una società che vuole rompere col suo passato. L’ottusa intransigenza borbonica trasformò giustiziati, esiliati, perseguitati in martiri; mentre l’apparente sconfitta divenne un seme che in due generazioni produsse frutti.
In questo clima arroventato molti giovani sacerdoti diventarono accesi giacobini. Alcuni partecipano alla rivoluzione convinti di essere nel giusto in contrasto con famiglie e contesto paesano. In seguito, dopo l’arresto, le condanne, l’esilio, ritornarono con la promessa di dimenticare la pazzia repubblicana. Alcuni apparivano psicolabili, individui con una ondivaga volontà e un marcato bisogno di rispetto di sé. La situazione non meravigliava considerando che molti aspiranti al sacerdozio, specie dei ceti più elevati, erano dei cadetti, condizione che in quegli anni cominciò ad essere percepita come una punizione perché minava ogni personale possibilità di sviluppo sociodinamico. La talare era considerata la sola opzione praticabile; la imponeva il contesto e un tirannico dovere verso il decoro familiare. Insegnamenti religiosi e morale comune con aiutavano a superare i conflitti interiori. I più influenzabili ritennero di rinvenire nel nuovo corso politico la realizzazione di un più umano codice comportamentale: autentica libertà e una rigeneratrice uguaglianza avrebbero affratellato tutti, ponendosi agli antipodi rispetto alla pretesa di obbedienza assoluta ed acritica.
Religiosi insoddisfatti e preti superficiali divennero pecore nere trasformandosi in reprobi traditori della religione e del re. Il popolo, invece, non fu realista o giacobino; manifestò la propria diffidenza verso una rivoluzione importata che, nel promettere democrazia e istituti repubblicani, appariva imposta dallo straniero. Indecise tra due fazioni, le masse si sollevarono spaventando i gruppi dirigenti in lotta tra loro. I galantuomini, i pochi nobili rimasti in loco, gli esponenti più responsabili del clero organizzarono un fronte comune contro questa temuta jacquerie. Ad emergere furono le menti fredde dietro le quinte, prototipi dei numerosi Girella che affollavano il ceto dirigente locale.
In quegli anni vescovo di Capaccio era Vincenzo Maria Torrusio. Il presule in poco tempo percorse una brillante carriera: segretario di mons. Zuccari, arcidiacono della cattedrale di Capaccio, convisitatore, vicario e luogotenente generale della curia di Napoli sotto l’arcivescovo Zurlo, delegato apostolico per il regno, ministro della giunta ecclesiastica. Egli si contraddistinse per una significativa parabola: collaboratore dell’intransigente mons. Zuccari, in più occasioni per il rigore contestato dal clero, dal 1799 divenne un attento osservatore politico. Di tutti i presuli originari della diocesi è stato il personaggio che ha vissuto esperienze di vertice nella capitale del Regno. Torrusio era intenzionato a restaurare la disciplina ecclesiastica riproponendo il programma di riforme del predecessore. Al pari di altri esponenti della borghesia, egli si schierò sempre dalla parte dei vincitori. In realtà, per intuito politico, abilità diplomatica e capacità operativa si dimostrò quanto mai abile in un periodo estremamente complesso, ma non riuscì a celare alcune ambiguità che dal sanfedismo lo portarono ad aderire al Decennio e ritornare a sostenere i Borboni nel 1820-21.
Nella diocesi in questi anni i quadri medi e bassi del clero erano poco propensi a seguire le indicazioni dell’ordinario. Molti si eranoimpelagati in una rete cospirativa, alla quale avevano aderito perché emarginati dal processo produttivo d’intere aree e rinvennero nell’adesione al partito realista o repubblicano l’insperata occasione di crescita sociale. La crisi divenne anche più virulenta dopo la riconquista del regno da parte del cardinale Ruffo perché il blocco sociale emerso risultava molto liquido. Galantuomini e masse rurali vennero a contatto con nuovi valori; attanagliati dai bisogni, cercarono il riconoscimento del possesso certo e del diritto di proprietà sui beni fondiari come fondamento per consolidare le prospettive di rendita. Chiesa e feudalità videro insidiati i loro diritti reali e giurisdizionali. Parroci, sacerdoti secolari, membri degli ordini religiosi, frati francescani e padri dottrinari credettero che la rivoluzione li avrebbe liberati dall’autorità sovrana e affermato l’uguaglianza vissuta con fraternità oltre gli orpelli della religiosità. Per tanti ecclesiastici il vero nemico non era la Francia, ma un sovrano incapace e una regina nevrotica. Il malumore del clero secolare era rivolto contro i nobili locali, cattivi esecutori delle imposizioni volute dal re, e contro vescovi che si segnalavano per disinteresse verso i problemi del clero, tutti motivi di richiamo per l’illuminismo.
Quando nel febbraio del 1806 fu lanciato l’allarme perché i Francesi erano di nuovo alle porte risultò inutile ogni tentativo di difesa. Il Borbone perse di nuovo il Regno per la disarmante povertà della sua politica. Ogni tentativo per armare le masse e organizzare una chimerica resistenza popolare risultò impossibile e controproducente; infatti, l’unica vera sollevazione fu rivolta contro le autorità costituite e il Cilento precipitò di nuovo nell’anarchia.
Per la Chiesa locale risultò controproducente far leva sull’emotività popolare; si generò fanatismo ed una lunga teoria di saccheggi, uccisioni, odi. Si operò un’inconsapevole scelta di ruralizzare la metodologia di consenso, vano tentativo perché alla perdita degli strati più evoluti della popolazione corrispose solo un momentanea approvazione delle masse. Da allora e per molti anni, alle consuete difficoltà determinate dall’ignoranza religiosa del popolo e dall’impreparazione del clero si aggiunse anche l’isolamento e l’atrofia pastorale. In effetti, nonostante l’apparente impronta religiosa data da Ruffo al movimento sanfedista, tutto s’era risolto nella riconferma dei connotati superstiziosi di un cristianesimo vissuto da una popolazione sensibile non tanto alla difesa del trono e dell’altare, ma sollecita a cogliere le opportunità del momento per dare sfogo alle frustrazioni accumulate. Le masse trovavano possibilità di tacitare l’eventuale senso di colpa con le motivazioni religiose propagandate dai tre presuli. La predicazione dei parroci e l’esaltazione dei monaci valsero più di ogni altra cosa per indurre il popolo ad armarsi, sicuro di farla franca nell’aldilà e certo anche del perdono del re per ogni eventuale eccesso. Nel clero locale si produsse una radicale frattura tra sacerdoti progressisti e illuminati, che seguivano con interesse l’ammodernamento delle strutture pubbliche dello Stato. Da allora, impossibilitati a manifestare pubblicamente le loro idee, andarono ad infoltire le file della carboneria e della massoneria. Il resto degli ecclesiastici, in genere espressione dei ceti più poveri, condizionati dal miraggio della congrua, furono maggiormente disponibili alle direttive del vescovo e delle autorità civili.
La tragica frattura del 1799, che coinvolse due popoli – città e campagna – e due culture, spaccò ulteriormente la chiesa cilentana, baluardo della reazione anti-giacobina per l’azione condotta dal vescovo di concerto con l’ordinario di Policastro. Molti denunciarono il fanatismo religioso, le paure collettive, la gazzarra di preti e frati incitanti il popolo ad uccidere i giacobini nemici della religione. Sconvolgimenti e incertezza per il futuro avevano galvanizzato le masse, scosse dal lungo letargo e rivendicanti diritti agognati da sempre. Il loro improvviso furore, pur nell’evidente brutalità e confusione degli obiettivi, testimoniava nel profondo una fede atavica, cieca e fanatica, ma pur tuttavia una fede religiosa. La componente fondamentale di questo sanfedismo non fu quella realista, ma la difesa delle tradizionali credenze minacciate dai nuovi rituali repubblicani; non a caso, man mano che s’abbattevano gli alberi della libertà, nei paesi fu issata la croce non necessariamente come bandiera borbonica. Perciò, nella controrivoluzione anti-giacobina si fusero e si confusero convulse e contraddittorie istanze sociali, componenti della religiosità popolare, il tradizionale ricorso alla protezione regia e primordiali sentimenti di giustizia. Il sanfedismo alimentò la guerra sociale, esplosione di odi e rancori a lungo repressi; in assenza di un programma e di una bandiera unificanti fece propri quelli del cardinale Ruffo. In questo frangente l’episcopato sembrò celebrare la propria vittoria sulla rivoluzione repubblicana e sull’irreligiosità moderna, ma mostrò al re e all’apparato statale le grandi possibilità offerte dalla chiesa per conservare potere e regno. La religione, organizzata e gestita da un apparato clericale in forte processo di ruralizzazione, divenne mezzo privilegiato di pressione, instrumentum regni in contrasto con gli aneliti dell’autentica spiritualità cristiana. (3 cont.)