Fatta salva l’analisi precedente e stando ai dati forniti dagli uffici curiali, diciotto dei sacerdoti che operano nella diocesi di Vallo sono dei religiosi avventizi, ai quali va la nostra riconoscenza perché reggono parrocchie, ma sono soggetti agli avvicendamenti decisi dai superiori dei rispettivi ordini o istituti. Quindi il totale dei sacerdoti che formano il presbiterio diocesano è di settantotto, dei quali diciotto hanno superato gli ottant’anni. Se si considera la loro provenienza, di questi ventuno non sono originari dei paesi del Cilento, quindi gli autoctoni in tutto sono 57, pari al 73%. Se si sottraggono i 18 giubilati allora scendono a 39, un numero pericolosamente risicato se a loro si chiede di essere l’espressione vincente di un modello socio-culturale sul quale costruire l’identità della chiesa locale.
Una ulteriore analisi interna a questi dati fa emergere con evidenza la politica seguita negli ultimi cinquant’anni, quando si è favorita l’immigrazione immaginando che riempire i ranghi e garantire un prete in ogni parrocchia fosse la soluzione di tutti i problemi pastorali.
Una ulteriore riflessione sui numeri porta alla seguente conclusione. Dei dodici sacerdoti da 70 a 79 anni d’età ancora in servizio soltanto uno non è cilentano, tra i tredici da 60 a 69 sono otto; quindici sono i preti da 50 a 59 anni e tra questi sette non sono cilentani, si scende poi a tre considerando i quindici da 40 a 59 anni di età. Il processo di emigrazione si blocca del tutto per i preti più giovani da 25 a 39 anni.
Emerge così la evidente composizione geograficamente frastagliata del presbiterio. E’ facile prevedere nei prossimi lustri una prevalenza di sacerdoti non originari dei nostri paesi, mentre la flessione indurrebbe ad animare una continua, intelligente e convincente pastorale vocazionale, capace di appellarsi alla generosità delle coscienze sollecitate dalla gioia che traspare dai componenti del nostro presbiterio. Intanto, occorrerebbe riflettere su come far fronte alle carenze per provvedere alla gestione anche materiale e burocratica delle parrocchie.
C’è consapevolezza di ciò a livello di organi centrali?
La domanda è di obbligo perché è facile immaginare quali saranno le conseguenze se non si cerca di provvedere.
La situazione sollecita una particolare attenzione alla chiesa locale nel suo complesso e, soprattutto, a livello di governo centrale della diocesi andrebbe individuata una specifica strategia per consentire al presbiterio di continuare ad esercitare la propria funzione. Va ricercato con rinnovato impegno il necessario amalgama e rispondere adeguatamente ai bisogni di una comunità che si esprime secondo specifiche modalità, frutto della storia e dell’influsso socio-culturale di lungo periodo. Un presbiterio poco amalgamato o che si segnala per un sostanziale individualismo nel suo operare contribuisce ad aggravare la condizione di un contesto che sperimenta processi sempre più complessi.
La stessa riflessione andrebbe fatta considerando l’eventuale modello di riferimento seguito da chi è chiamato a dare unità alla diocesi e, di conseguenza, a ravvivare il senso di comunità nel presbiterio. Si potrebbe anche tentare, con una lucida ed intelligente apertura mentale da parte di coloro che sono chiamati ad espletare tali funzioni, ad adattare esperienze personali fatte in altre realtà ecclesiastiche. Applicare modelli di riferimento senza gli opportuni adattamenti rischia di avviare una dolorosa operazione di condizionamenti e di ridimensionamento, non compresa dai fedeli e dal clero. Non appare vantaggioso, ad esempio, evocare modalità in uso in contesti molto più ampi, quali potrebbero essere quelli metropolitani, dove numeri e quantità vengono gestiti concentrando molte attività in uffici e privilegiando una prassi di rappresentanza e di delega, che può non risultare una idonea soluzione ai problemi emersi in un presbiterio come il nostro. In una frastagliata e dispersiva realtà territoriale andrebbero moltiplicate le occasioni di incontro, lo scambio di idee, la possibilità di dialogo. Esigenza che risulta difficile soddisfare se le occasioni di incontro si limitano a qualche ora in pochissime circostanze durante l’anno, mentre le opportunità d’interventi e di riflessione comunitaria si riducono al lumicino.
La necessaria funzione di animazione culturale e spesso anche quella di una vivace azione di supplenza in zone dove la società civile presenta una evidente carenza di dinamicità subisce delle evidenti ripercussioni in negativo. Ma questo tema sarà affrontato la prossima volta. Intanto risulterebbe opportuno discutere sulle caratteristiche del presbiterio diocesano, sul fatto di essere costituito da un numero sempre minore di autoctoni, da una statica porzione di immigrati e da una consistente percentuale di avventizi presenti solo temporaneamente e, quindi, meno sensibili alle esigenze di salvaguardia identitaria della chiesa locale.
La domanda da porsi è se questa situazione sia un problema o una opportunità.
Ovviamente l’ottimismo cristiano porta ad asserire che “tutto è grazia”. Si parla di globalizzazione, di necessità di superare muri e barriere e, di conseguenza, della bontà di una multiculturalità capace di venire a capo del pensiero unico. La presenza di tanti sacerdoti provenienti da contesti culturali e sociali diversi potrebbe costituire un dinamico esempio di amalgama, un arcobaleno di sollecitazioni capace di arricchire tutti. Ma si richiede una attenta, partecipata, se necessario critica, analisi per conoscere la portata della situazione e poter assumere le dovute decisioni, sentirsi cioè veramente chiesa locale che vive la cattolicità.
Non è un ossimoro, ma la specifica missione di un presbiterio guidato da una ottimistica, attiva, felice, leadership, in un contesto dove tutti, a qualunque livello di responsabilità, sono chiamati ad essere veri fratelli, pronti a confermare nella fede laici e sacerdoti.
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