di Giuseppe Liuccio
Martedì 17 u.s. si è celebrata la “giornata del dialetto”. Per l’occasione ho fatto qualche riflessione che ripropongo qui di seguito. Probabilmente la società dell’omologazione e della massificazione ha cancellato o, quanto meno, sbiadito ritualità che hanno connotato secoli di vita sociale e religiosa. E, così, pezzi della nostra identità cadono in frantumi. E i Beni Immateriali (ritualità religiose, tradizioni folcloriche e canti popolari) seguono la stessa triste storia di vecchie abbazie e prestigiosi palazzi gentilizi, carichi di storia e di arte, sbrindellati dalle impietose intemperie della natura e dalla colpevole incuria dell’uomo. Così come rischia di scomparire il nostro dialetto con la ricca produzione di detti, proverbi, cunti e canti: testimoni della nostra bella civiltà contadina. Eppure altrove il dialetto sta conoscendo una riscoperta. Una indagine dell’Istat di qualche anno fa rivelò che il 23,6% degli italiani (3 milioni circa) usa anche il dialetto nei rapporti interpersonali come nelle espressioni artistiche. Io il dialetto spesso lo parlo; in dialetto scrivo e, a giudizio di molti, qualche volta con successo. Il dialetto spesso mi è più congeniale dell’italiano perché lo avverto più espressivo, lo sento più sanguigno, lo trovo ricco e prismatico nelle assonanze come nelle sfumature polivalenti. È, questo, un concetto scontato e però, ogni tanto, è opportuno rimarcarlo: la storia della lingua (il dialetto in questo caso) è anche e, forse, soprattutto storia politica, economica e sociale, perché la lingua accompagna, in un rapporto di reciproca influenza, l’evoluzione di un popolo. Conoscere a fondo il nostro dialetto significa, allora, ripercorrere a ritroso la storia del nostro territorio e riscoprire, così, che siamo eredi dei Greci (esempio “cato” da kados = grossa anfora secchio, lippo = muschio da lipòs=grasso, untume, tumpagno = coperchio di botte e o asse su cui si spiana la farina da tumpanion = disco di legno, zimmaro = caprone, becco da khimaros), dei Latini (“trappito” da trapetum” = frantoio, accio da apium, mantosino da ante sinun), degli Arabi (“ziro” da zir) dei Francesi/Angioini (“allumà” da allumer = accendere) degli Spagnoli/Aragonesi (“alliffà” da alifar= imbelletarsi). E questi sono soltanto pochissimi esempi. Si tratta di tasselli di uno stesso mosaico; sono anelli di una stessa catena, elementi inscindibili di uno stesso discorso ed impongono a tutti una riflessione ed un impegno: la necessità di un Museo del folclore cilentano, che censisca, cataloghi e salvi dall’oblio un patrimonio inestimabile di cultura popolare. È una proposta che ho già fatto, nel corso degli anni. La ripeto ancora rivolgendomi questa volta ai politici, che sono stati eletti nel Cilento. La faccio ai responsabili delle Fondazioni, dei Gal, che, per statuto hanno il compito di riscoprire ed esaltare i Beni Immateriali del territorio dove operano. Qualcosa è stato fatto. E penso, ad esempio, al Museo dei giocattoli poveri di Massicelle. Ma penso anche all’enorme patrimonio non ancora conosciuto o non valorizzato abbastanza: Le Confraternite del Cilento Antico, l’esaltante ed avvincente Volo dell’Angelo frequente nello stesso territorio, le sfilate carnevalesche dei tanti paesi cilentani (Il corteo degli sposi, lo riavolo, pulecenella, la femmena prena, vavo con il suo esilarante testamento prima di finire bruciato nel falò della piazza tra canti, balli e fiumi di vino con un popolo eccitato dalla e nella festa), e potrei continuare con le processioni caratteristiche, con i sentieri e i mestieri della transumanza dai monti (Cervati e Alburni) al mare di Paestum, con la “tosa delle pecore”). A quando onorevoli nazionali e, soprattutto, regionali una proposta di legge tesa a riscoprire, con una ricerca seria questo straordinario patrimonio? A quando, responsabili di Fondazioni e Gal, un progetto finalizzato ad esaltare i Beni Immateriali del nostro territorio? E mi piace ricordare qui di seguito la sensibilità mostrata sul tema da Gianni Fortunato, consigliere regionale nella scorsa consiliatura. Mi piacerebbe che la stessa sensibilità e determinazione la dimostrassero Fondazioni e Gal, ma lo facesse soprattutto il Parco, inserendolo come tema ineludibile ed improcrastinabile nell’agenda di lavoro e affrontandolo senza fumisterie e voli pindarici improduttivi ma nella consapevolezza che, “nel passato ci sono premesse ineludibili per il futuro”(Eliot). Ed infine mi sia consentita una domanda/provocatoria che sa di insolenza voluta. “Voi tutti, parlamentari, deputati regionali, amministratori di Fondazioni e di Gal, governance del Parco, con il potere di incidere, tutti, sullo sviluppo del territorio, la sera prima di andare a dormine vi chiedete, qualche volta, quale contributo avete dato per il Cilento nel ruolo e nella funzione a cui siete stati eletti? E, nel caso, se la risposta è deludente o negativa, riuscite a prendere sonno o la vergogna di essere esposti al biasimo dei posteri, a cominciare dai vostri figli e nipoti, vi tormenta con rimorsi tanto cocenti quanto colpevoli? Chiedo scusa della provocazione insolente finale. Ma io mi sforzo di fare al meglio il mio dovere di intellettuale/operatore della comunicazione, che ama e, quindi, difende le ragioni del territorio dove è nato. E, detto per inciso, la notte dormo sonni tranquilli, io.