Rovistando in una polverosa cassa di legno rinvenuta in una nascosta intercapedine del tetto di una chiesina, un monaco studioso, un giorno di molti decenni fa, trovò uno sbiadito manoscritto sul quale spiccava un sigillo in rossa ceralacca con su impressa la Croce d’Amalfi.
Anche se con timore, il pio uomo aprì quelle carte e, con fatica, lesse: «…correa l’anno millecen … et quivi giunsero sacrum convenium tredici cavalieri dal mantello bianco. Il luogo era stato prescelto per voce dall’alto, perché posto in zona ove l’eterno era più vicino del tempo che scorre.
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Eligio, monaco eremita, quivi aveva preparato intorno al desco circolare tredici calici et tredici pani di accoglienza. Dagli alti scranni tredici diagonali convergevano al punto fermo ove il lapis exillis celebrava il mistero dell’immobilità assoluta.
Al termine del rivoltar di due clessidre i tredici cavalieri contarono cento sessantanove passi dal cenacolo del frate et segnarono l’arrivo con pietra tetragona et spada piantata nel terreno. Quindi ripartirono verso direzioni stellari».
Non si sa se quel documento con il sigillo della Croce d’Amalfi, o dei Cavalieri del Santo Sepolcro, sia ancora conservato da qualche parte. Non si sa se veramente sia stato mai ritrovato o il tutto non appartenga ad una affabulante illusione.
Ma tra i Monti Appenninici in territorio della nobile Repubblica d’Amalfi, intorno a quelle tredici pietre e tredici spade furono costruiti altrettanti villaggi a dar vita ad un paese senza luogo: Tramonti.
Qui, il sette luglio 1460 Ferdinando I, sconfitto dai Baroni della piana del Sarno, cercò rifugio trovandovi riparo ed accoglienza tale da parte della popolazione da essere indotto a concedere numerosi privilegi e il titolo di “Uomini nobili”.
Da sempre Tramonti è stato un luogo riparato, di difesa, anche se, attraverso il soprastante Valico di Chiunzi, le pietre delle sue strade sono state percorse da uomini in armi, eserciti come quello Pisano che nell’agosto del 1163 portò distruzione, saccheggi e morte nella sottostante Repubblica Marinara, alla quale Tramonti ha legato, come gli altri centri costieri, le sorti della sua economia e del suo sviluppo, crescendo a tal punto che nel 1595 contava ben 1072 fuochi, cioè nuclei familiari che Amalfi non aveva.
Alcuni storici come il Cerasuoli datano le fondazioni di Tramonti al I sec. a.C., altri come il Camera al IV sec. d.C. e altri, infine, la collocano intorno al 500/550 d.C. ad opera di romani scampati alle incursioni saracene e qui riparati. Le urne funerarie romane, qui ritrovate, sono certamente testimonianze di un passato nobile e antico. Scrive lo storico Vittorio Bracco: «nelle ville romane non vi sono solo i segni del riposo, della quies procul negotiis, del rinfrancamento estivo dei proprietari e delle loro famiglie», bensì anche i segni di vita quotidiana per l’intero anno.
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Di certo questo luogo “tra i monti” è sito deputato al ritiro, alla contemplazione, al silenzio, al nascondimento, alla difesa. Furono queste caratteristiche e la ricchezza dei boschi e delle acque a consigliare i primi insediamenti abitativi. E in questo regno del silenzio non poteva mancare la presenza dei monaci Basiliani che a Gete costruirono un loro presidio di fede, lontano dalle strade battute dagli eserciti e fuori dal contatto con gli uomini delle valli.
«Un piccolo altare con affresco di Madonna in grotta – scrive Adriano Caffaro – rimanda la mente a monaci solitari».
Più oltre il Caffaro ricorda che della laura di San Michele a Gete si ha notizia già nel 1181 e nel 1328 viene citato per la vendita di un castagneto confinante con la proprietà della chiesa.
Sono proprio i castagneti da cui spuntano campanili cuspidati a dare l’immagine di Tramonti, paese che suggerì il nome “tramontana” a Flavio Gioia, mentre cogitava sulla rosa dei venti e l’ago magnetico.
Tramonti affida l’origine del suo nome a “terra tra i monti”, ma sviluppa la sua esistenza su tredici contrade, con tredici chiese e altrettanti campanili, tanti quanti sono i comuni della sottostante Costa d’Amalfi, borghi raccolti a cerchio intorno ad una conca quasi fosse il desco preparato per i tredici Commensali dell’Ultima Cena. «Passato su un ponte il Vallone di Landrone – scriveva Luca Vespoli nel 1983 – si ha dall’alto un bel colpo d’occhio su tutta la valle di Tramonti, complesso di verdi conche, nelle quali gli abitati dai tetti rossi mettono una nota vivace».
A Tramonti si può giungere da Maiori o da Ravello, ma di sicuro l’itinerario più bello è quello che scende dai 650 metri del Valico di Chiunzi, a guardia del quale resiste, quale ultimo baluardo, la Torre antica fatta costruire da Raimondo Orsini, principe di Salerno, insieme a quel castello di S. Maria la Nova, al centro della conca, ove oggi tremula le mille fiammelle del riposo eterno.
Basta attraversare il burbero aspetto della Torre e subito ci si immerge nel silenzio solenne dei castagneti.
La strada, con modeste tortuosità, è tutta in discesa.
Quando ogni rumore tace si può godere dello stesso silenzio del mare al largo, che a volte si intravede tra qualche tornante che infila una gola.
Poche curve e tra le ultime propaggini appenniniche dei Monti Lattari si svelano i tredici borghi di Tramonti.
Visitare questo paese dalle ombre lunghe è come intrecciare un “punto a croce” su un immaginifico telaio da ricamo, come quello sul quale le donne del luogo, nelle sere d’inverno, preparano il corredo alle ragazze, mentre gli uomini intrecciavano i giunchi a formare cesti in infinite forme: era il ripetersi di quel “miracolo delle mani” raccolto in emozioni e scritti da Giuseppe Liuccio.
Su queste terre a sbalzi dove il tempo è scandito dal canto del gallo, dal latrato dei cani sull’aia, dal muggito delle mucche nelle stalle, gli uomini celebrano ancora gli antichi riti del lavoro curvo a coltivar la terra o mungere il latte per i nivei prodotti lattiero-caseari. «…vidi chini il cielo, l’asino e l’uomo a stendere il palmento di terra avara, a intiepidire il vento» scriveva Alfonso Gatto .
Sono i ciocchi nel camino, le cime dei monti protettori e il sole d’estate a intiepidire il vento gelido che macera il seme e irrobustisce l’acino per il corposo vino d’inverno.
In una casa di una nobile famiglia romana, un giovane leone della costiera amalfitana, una sera di novembre degli “anni ruggenti”, apprese dalla sua bella e innamorata padrona di casa, mentre piluccava con voluttà una pigna, che quella era uva di Tramonti, l’ultima uva d’autunno. saporita e succosa, generosa e voluttuosa come l’amore.
La tentazione del Leopardi è forte: Suono di risa di bimbi, voci di donne, di echi ovattati di roncole a spuntare il racemo o a strappare dal tronco lingue di castagno da intrecciare in mille motivi a formare cesti, sporte, spaselle.
All’Ave del Vespero i rintocchi dialogano nella Valle dai tredici campanili, quasi a ripetere l’antica liturgia della preghiera dei tredici cavalieri. Il nascere dalla roccia delle torri indica la loro origine rupestre.
Gli affreschi degli interni religiosi rimandano ad antichi splendori. Ecco S. Elia con la torre a quattro piani e la chiesa dell’Ascensione a lungo sconsacrata. Narra, infatti, una leggenda popolare che la chiesa venne interdetta, in seguito all’uccisione del parroco, mentre celebrava messa, ad opera di un “bravo” di un signorotto locale, al quale il religioso aveva disobbedito.
Più oltre Cesarano, terra una volta di cestari, prezioso baluardo per la difesa di Tramonti, coinvolta nella lotta tra durazzeschi e aragonesi.
A Pucara è invece ancora visibile il sedile in pietra ove i morti venivano messi a “scolare”. Ma nella sua chiesa è anche una tela della scuola di Luca Giordano.
Due preziosi sarcofagi sono conservati nella chiesa di San Francesco a Polvica, ove ha sede la Comunità Montana: è stato calcolato che più di un terzo del patrimonio forestale della Costiera Amalfitana riveste le montagne di Tramonti.
A Figline vi è l’ultimo cestaro, ma l’abside della chiesa bizantina conserva preziosi affreschi, mentre a Gete di notevole interesse è l’insediamento rupestre di San Michele.
Patria del vescovo Andrea Cadamone, del giureconsulto, scrittore e poeta Gaspare Luciani e dei cronisti Giovan Battista Belvito e Andrea Mola.
Tramonti è anche la terra dei più rinomati, anche se anonimi, pizzaioli del mondo, tanto che è in fase di progettazione un Museo della Pizza.
Frutto di miseria e fantasia, la pizza è diventata un piatto prelibato, entrata nella storia, nel costume, nel folclore del popolo grazie anche ai pizzaioli tramontani, ai quali non manca la conoscenza di quella “corte di regole” unica garanzia per un prodotto autentico e genuino.
Poggiate le membra ad un robusto castagno, lo sguardo scivola sulla vallata: la cerchia dei monti protegge uomini e case, un luogo ancora non raggiunto dalla speculazione edilizia.
Sulla strada sottostante un’anziana donna, aiutandosi con un bastone di giovane castagno, insieme ad un sornione cane, dirige il gregge al riparo notturno, dopo la scorribanda su per antichi tratturi. Il filo di fumo che esce dal poco distante comignolo, sale dritto quando le ombre lunghe del tramonto sono da un pezzo scomparse.
Così come da un pezzo sono scomparsi monaci ed eremiti. Tuttavia da qualche laura sembra ancora giungere un vespero gregoriano.
Suggestioni del luogo dove a «sovrumani silenzi e profondissima quiete»? Forse…!