La situazione è drammatica: secondo uno studio del Banco di Napoli il comparto mozzarella precipita del 44%, la peggiore performance del Sud. Se ci mettiamo i numeri alle spalle sul resto ci possiamo anche un po’ divertire. Bufale, gossip & mozzarella, un legame c’è. Se a Capaccio la moglie scopre il marito insieme all’amante, in atteggiamenti ben poco equivoci, e si infuria: tra le due rivali – nella location del bar annesso al caseificio – scoppia una violenta rissa, sedata solo dall’intervento provvidenziale dei carabinieri. Peggio va verso Serre dove il caseificio, assai meno di trendy di quello di Spinazzo, teatro del duello rusticano, c’erano ingenti quantitativi di cagliata proveniente dall’est Europa e vari tipi di prodotti caseari provenienti da altri caseifici e dalla grande distribuzione alimentare. Alcuni di questi prodotti – hanno riferito gli investigatori – erano scaduti e altri in stato di alterazione. Vista l’assenza di latte da utilizzare come materia prima nel caseificio si produceva mozzarella mescolando alla cagliata i latticini ritirati dal mercato, aggiungendo prodotti chimici (come acido citrico e ipoclorito di sodio, anch’essi trovati dai carabinieri nel caseificio) per rendere le mozzarelle artificiosamente più presentabili e gustose. Questo è ciò che sui mass media questa settimana passa sul settore che dà vita a una larga fetta dell’economia della parte del territorio alla sinistra del Sele. Queste storie che stanno tra la commedia umana e la truffa nascondono la realtà di un comparto che, come ci racconta un testimone privilegiato dell’economia locale, Enzo Bagini, proprietario della Dipogas di Albanella, distributore di energia a largo raggio. “Da due anni è crisi nera. Chi sta inguaiato è l’allevatore di bufale medio è sovraindebitato, fino a oggi ha pensato di farcela accrescendo le quantità di bufale in suo possesso e lavorando a più non posso lui, le sue maestranze e anche la sua famiglia. Oggi sopravvive con ciò che si chiama sì anticipi sulle fatture ma è finanza creativa, assegni di fatto post datati che riceve e dà… L’allevatore non riesce a scaricare sugli altri. Sta nelle botte. Lo costringono a comprare sempre più all’esterno i foraggi. E’ arrivata la concorrenza sleale sui terreni dai quali una volta traeva mais e altri foraggi. A Altavilla e Albanella i grandi proprietari terrieri (prima tra tutti la Diocesi) preferiscono concederli agli industriali del pistacchio. Nel frattempo i costi di energia e mangimi sono tutti schizzati verso l’alto”. E a pagare è solo l’allevatore che è da solo. I caseifici attutiscono il colpo perché continuano a fare cartello sui prezzi del latte alla stalla del produttore e godono di un’organizzazione informale che funge da “banca del latte” capace di redistribuire le eccedenze congelandole o collocandole presso chi ha necessità di maggiore materia prima. Gli allevatori pagano anche la debolezza sindacale e devono accettare anche decurtazioni arbitrarie sui prezzi o dilazioni sui tempi di pagamento. O così o Pomì, è la parola d’ordine. “Tra di loro – riflette Bagini – ci vorrebbe qualcuno, sindacato o istituzione, capace di fargli sperimentare un contratto di rete (la cosiddetta cooperativa non cooperativa) per organizzarsi per l’approvvigionamento delle materie prime o per portare il latte presso caseifici situati in altre parti d’Italia che paghino di più. Stesso discorso per i reflui e le biomasse dove gli speculatori appaiono sempre ma un’iniziativa seria e di aiuto al settore mai. Eppure nel triangolo Altavilla – Albanella – Capaccio questo è il settore di maggiore impatto anche occupazionale”. IL DANNO DELLA TERRA DEI FUOCHI. Oggi sappiamo quanto è costato ai produttori di bufala il danno di immagine della Terra dei Fuochi: 56,6 milioni di euro nei primi nove mesi del 2014. Questa è la perdita secca rispetto ai 174 milioni fatturati con l’export nel 2013. Una vera e propria emorragia che non accenna a diminuire, visto che in termini percentuali il terzo trimestre segna -44,7% rispetto alla media del -38,4% tra gennaio e settembre. L’amara verità è registrata nel consueto rapporto elaborato dalla direzione Studi e Ricerche del Banco di Napoli sull’andamento dei principali distretti economici del Mezzogiorno. Una tendenza che si inserisce in un macro dato comunque negativo, ossia il-1,5% di tutto il Sud rispetto al +2,2% dell’Italia e in cui la Campania con il -0,9% è penalizzata proprio da questo crollo del comparto bufalino: quasi 57 milioni in tutto, contati però solo sull’export, a cui vanno aggiunti comunque i numeri negativi del mercato nazionale. Ma il dato più sconfortante non è questo: perché gli altri due grandi distretti campani monitorati da questo studio, quelle delle conserve e quello della pasta/caffé sono tutto sommato stabili, il che vuol dire che le immagini dei ritrovamenti dei rifiuti tossici nelle aree del Casertano e del Napoletano hanno colpito quasi esclusivamente la mozzarella di bufala campana, anche quella che si produce con vista sui templi di Paestum . L’aspetto più interessante è forse cercare di capire da cosa trae alimento questo sentire comune così negativo, al punto da incidere così pesantemente sulle vendite. Come sempre accade per il Sud, i focolai mediatici negativi sono autoctoni e nascono dall’eterna dialettica tra produttori di latte e trasformatori con i primi che accusano i secondi di barare e di usare latte non previsto dal disciplinare. Oppure anche dal contrasto di visione tra piccoli produttori artigianali e quelli più grandi, contrasto che nella mozzarella come in altro settore, vede demonizzati i grandi, sempre «colpevoli« di ogni nefandezza possibile e immaginabile. Solo la pasta al momento ne è stata esente, ma ci arriveremo presto attraverso tutti luoghi comuni che circolano sul grano. C’è poi anche il ripetere luoghi comuni di alcuni media che non hanno alcun senso, come la questione della brucellosi che da quasi dieci anni in Campania è sotto gli standard italiani ed europei e che nonostante ciò viene identificato come un problema tipicamente regionale. E a nulla vale l’osservazione che il latte per mozzarella non presenta alcun rischio anche se prodotto da un animale malato perché il processo di pastorizzazione indispensabile per produrla uccide ogni batterio. La mozzarella, insomma, è la metafora della comunicazione all’epoca della globalizzazione, dove se si ammala un pollo in Vietnam in giorno dopo la signora Rossi evita di comprarlo dal proprio macellaio di fiducia. E questa incapacità di fare squadra tra produttori e allevatori, grandi e piccoli, oggi presenta un conto decisamente salato, quasi 57 milioni di euro in meno di export. Una cifra che consentirebbe di stare per un anno intero sui principali network mondiali. Una memoria che però viene rinfrescata continuamente da inchieste giudiziarie che partono con i fuochi di artificio ma che spesso poi terminano con assoluzioni e richieste di archiviazioni o da servizi giornalistici non troppo preoccupati di fornire il quadro esatto del settore. ORESTE MOTTOLA
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