di Antonio Pecoraro
La settimana di Pasqua arriva con un po’ di freddo e il sole a sprazzi, Agropoli in questo periodo si specchia, oltre che nel suo mare azzurro, nell’erba dello stadio Guariglia insieme a migliaia di ragazzini patiti del pallone. Un evento oramai che ha più di trent’anni di vita e che caratterizza fortemente il cartellone –
molto ricco – degli eventi sportivi agropolesi. Mi trovavo lì per puro caso, alla presentazione del due aprile, puro caso forse no visto che mio figlio gioca negli esordienti di una squadra locale invitata a questo torneo, e mi sembrava di essere catapultato in un altro mondo, un’altra provincia, un’altra nazione. Mi sono ritrovato in una tribuna zeppa di dialetti campani, lombardi, toscani da Pistoia, siciliani di ogni latitudine, calabresi della porta accanto (Praia), piccoli incipit in spanglisc (Portoricani), ciociari, (e la loro divertente parlata), tedeschi, cittadini dell’est europa (slovacchi e cechi, questi li ho capiti dalle bandiere) l’inglese di una lontana provincia canadese (Collingwood – Caledon) e dulcis in fundo: americani: tanti, ma non provenivano dalla provincia limitrofa e dolente, da Lotus nella sperduta Giorgia, da Lincoln nel Nebraska o che so io, da Albany o dal New Jersey, ma da New York City, ecco avete capito bene, Agropoli in questi giorni di Pasqua è stata invasa da cittadini provenienti dalla Grande Mela che tifavano come forsennati i loro orsacchiotti (ed avevano anche la squadra di calcio femminile) in pantaloncini corti che conoscono i primi rudimenti del soccer come chiamano il calcio da quelle parti, e che si sono esibiti nel meraviglioso rettangolo d’erba dello stadio Guariglia. Più di cento squadre provenienti da ogni anfratto del mondo (dimenticavo gli australiani di Sydney). Ho sempre odiato quelle trombette strombazzanti che ti spaccano i timpani e facevo la spola col bar adiacente il parcheggio (ma non vendevano birra e alcolici, meglio così, captavo le sfumature del momento) giusto per riposare la mente e le orecchie, e mi ritrovavo in un parcheggio con – davvero – centinaia di pullman con centinaia di targhe diverse. Mi sono chiesto dove potessero alloggiare e dove potessero giocare quelle migliaia di ragazzini e genitori festanti al seguito: mi hanno risposto: tra Paestum e Agropoli, campi dell’Ariston (Capaccio – Paestum…) e campi agropolesi. Ma allora è proprio vero che se una manifestazione sportiva, culturale, ricreativa, ha successo, porta il seguito come una scia d’api che ti riempie l’alveare ospitante. E tutto il cucuzzaro. E tutti gli alberghi della costa. I ragazzini in vestiario di ordinanza hanno girato il campo con le bandiere d’appartenenza e inno nazionale. I portoricani infreddoliti in tuta e guanti alle mani, i tedeschi in pantaloncini corti e magliette a maniche corte. Diverse percezioni del clima. Non è certo il Mondiale e nemmeno l’Olimpiade di Torino di qualche anno fa. Però che bella realtà che a pochi chilometri da casa mia c’è una manifestazione del genere, e che io non conoscevo. Lo speaker fa gli annunci tra un inno e un altro, dopo un po’ passa il microfono a quello che è l’Anima Mundi di questo torneo, l’organizzatore storico, Antonio Inverso alias “Caciotta” conosciutissimo nell’ambiente sportivo non solo agropolese ma di tutta la Campania. Di solito è una comunità che valorizza dei singoli, in quel sistema in cui la fiducia si associa alla stima del singolo che ha la capacità di organizzare e di saper fare; e così in questo caso è stato il singolo che ha arricchito la comunità: il confine è sottile e molto labile. Mi chiedo se un singolo uomo ha sempre costruito la storia di un paese, di una città, di un nucleo umano. Non lo so; credo che il rapporto comunità – singolo debba essere paritetico e collaborativo. Non so, poi, alla fine chi ha vinto l’Acropolis Cup, non è importante: ha vinto la città di Agropoli, di sicuro. Tutta la comunità intera, grazie ad un uomo col soprannome di un formaggio nobile.