Cos’è una terrazza? «È un nido ben costruito con i fili del silenzio» scriveva Stefan Andres della sua ultima casa, quella in alto, vicino al cimitero di Positano, dove lo scrittore tedesco abitò a partire dal 1937. Nel saggio autobiografico “Terrazze nella luce”, così la descrive: «una vecchissima ed un tempo comoda casa, che però adesso si stava sgretolando lentamente, e nelle sue massicce pareti piene di crepe avevano messo radici erbe e fiori».
Nono figlio di un mugnaio, era nato il 26 giugno del 1906 in un villaggio tedesco vicino alla romana città di Treviri, adagiato sulla riva destra della Mosella, su cui si affacciano ripidi e ordinati filari di viti.
Emigrato dalla Germania nazista perché in contrasto col regime e per aver sposato una donna “mezza ebrea”, cercava una “distanza dal mondo” trovando rifugio nella appartata Positano come tanti altri esuli, che si ritrovavano tutti al “Bar Risorgimento” di Giacomino: «Erano artisti, eremiti e stravaganti di mezzo mondo – ricordava Andres – i quali nell’orologio del campanile, che stava fuori da tutti gli orari, vedevano il simbolo della loro volontà di nascondersi per un paio d’anni ai margini della storia, sottraendosi alle sue sfide».
Il soggiorno a Positano per Andres fu contrassegnato da difficoltà economiche, per il sequestro dei beni in Germania e la mancata corresponsione dei diritti d’autore, e da problemi locali come quando fu denunciato da un giovane giurista fascista, che gli procurò l’espulsione dall’Italia; la solidarietà dei Positanesi, però, garantì la sopravvivenza della famiglia Andres: la moglie Dorothee Freudinger, sposata nel 1932, sarà riconoscente per tutta la vita agli “italiani del sud”. E fu il medico di Positano, Vito Fiorentino, antifascista, a salvare, con falsi certificati, lo scrittore dal richiamo nella Wehrmacht. Ma fu anche il periodo letterario più prolifico: qui nacque la grande trilogia “Il Diluvio Universale”, i cui primi due volumi sono ambientati a Positano, la “città morta” come veniva chiamata per le tante case che gli emigranti, gli “andati”, avevano lasciate senza imposte alle finestre; e vi erano, inoltre, chiari riferimenti a Montepertuso e Nocelle, le due frazioni alte di Positano. Ma qui, Andres, nel 1941, scrisse anche il suo capolavoro “Noi siamo utopia”.
Andres era stato a Positano già nel 1933, ma il primo alloggio con la moglie Dorothee fu a Casa Carmela, vicino alla spiaggia dove c’era la terrazza piastrellata e recintata da una pesante inferriata; Andres ricordava: «Prima che calasse la notte, mettevamo sulla terrazza un tavolo con una lampada a petrolio (a quei tempi non c’era ancora la luce elettrica). Intorno al tavolo e alla luce stendevo una rete metallica contro le zanzare; portavo poi carta e calamaio sotto la tenda di luce le cui pareti erano appena visibili. Dopo questi minuziosi preparativi, scivolavo sotto la rete e andavo avanti a scrivere la storia dello studente di musica Eberhard, che avevo iniziato un anno prima a Capri su un’altra terrazza».
Dopo la guerra, ricordando quegli anni, Andres scrisse “Positano, storie di una città sul mare”, semplice e triste, misera e dignitosa. «Nei suoi racconti – annota Dieter Richter – Andres ha concentrato tutta la sua attenzione artistica sulla vita interiore di questa città». Sono racconti di commovente bellezza, acquerelli di persone semplici, ricoperti da una trasparente vernice di poesia, gente abituata a camminare scalza, a vivere senza elettricità, a non conoscere il tempo, perché l’orologio aveva un suo autonomo andare e di cui nessuno si preoccupava. Andres racconta di Michelino, il suo vicino di casa, padre di «undici figli sani e laboriosi», del Mozzo, il suo tuttofare, con il berretto «di traverso sulla nuca come se fosse appeso al ribelle ciuffo brizzolato», di Agnello che, una volta a settimana, lavava i pavimenti della casa di Giuseppe Sabenissimo, «che a New York ha un negozio di verdura ventilato con aria fresca». E ancora racconta di Beniamino, sbarcato dopo tre anni dal veliero Annamaria, delle sorelle Giuseppina e Sofia, «Puppì e Sofì» come le chiamavano i compaesani, di don Giannino, sacrestano del Duomo, che si fece rubare i gioielli, falsi, della Madonna, e di Suor Caterina, che non amava le vacanze perché la lasciavano senza un da fare. Splendido, poi, è il ritratto di Flora, giovane domestica di cui dice: «non era la nostra donna di servizio e alla quale lascio l’antico titolo patriarcale di domestica». E, non ultimo, vi era Kallimacos, gatto educato, che si comportava «in base all’etichetta del paradiso», vicino al quale «si rannicchiava il bianco coniglio Tekla, cercando il latte contro il suo ventre». Profondamente religioso, educato alla scuola dei Gesuiti prima e dei Cappuccini poi, Andres non tralascia di raccontare la processione in mare della Madonna: «avanzava ondeggiante sulla portantina la Madonna di Positano, coperta d’oro». E quando giunse sulla spiaggia, prese posto sulla barca da pesca più grande che cominciò a prendere il largo. Allora «tutte le barche spinsero la loro prua in mare badando a stare in linea con la barca della Madonna, perché anche quest’anno volevano continuare a tornare a casa cariche di pesce e senza danni». E veniva fuori quella religiosità, quella profonda credenza in Dio che lo faceva un “anti” di tutti i totalitarismi dell’epoca, nazifascismo e comunismo, perché prepotenti contro l’uomo, oppressori della sua dignità. Era una sorta di resistenza quel suo ritiro dal mondo nel «grande silenzio che in tante notti e spesso anche di giorno circondava la terrazza».
Anche se non si sentivano i colpi di cannone, Positano subiva comunque la triste presenza della guerra: «dovevamo arrangiarci da soli: nella fame, nella malattia, nella morte. Eravamo stati lasciati soli, forestieri e lentamente comprendevamo il canto: “Poiché sono in miseria” (canto popolare tedesco)». Per mantenere la famiglia durante la guerra, lo scrittore diede lezioni di tedesco e fece delle traduzioni. Con l’arrivo degli Alleati si adattò a vendere cartoline dipinte da lui stesso.
Nel 1942 morì di tifo la figlia primogenita, Mechthild, aveva nove anni e la sepoltura fu nel piccolo cimitero in alto, a dominio di golfo: «scavammo una tomba sotto il carrubo, guardammo dentro, e solo allora capimmo, finalmente rassegnati, quello che accadde in quel tempo, in ogni tempo!». Ma Andres scriveva: «La terrazza continuò ad accoglierci nel sole, nella pioggia, nel travolgente silenzio delle notti, nel mugghiare della marea, quando il mare si infuriava. Intanto riempivo il vuoto con i personaggi del mio “Diluvio Universale” e, di tanto in tanto, con i “Cavalieri della Giustizia”». La guerra poi inevitabilmente si avvicinò a Positano e le terrazze divennero «un palco posto al di sopra della scena». E quando gli Alleati, sbarcati di nascosto, fecero saltare il ponte sulla strada costiera, Andres annotò: «Sentii il colpo sordo e l’eco dalle montagne e vidi la nuvola di sabbia e polvere che, come una gigantesca donna barocca, improvvisamente ondeggiava sopra quel luogo e, dinanzi a quello spettacolo raccapricciante che lentamente si stava dissolvendo, esclamai: libertà! Sì, ora tra me e il popolo si trovava questo ponte saltato in aria…»
Nel 1950 Stefan Andres lasciò Positano con moglie e figlia e risalì in Germania, ma poi ritornarono tutti a Roma delusi dalla nuova Germania: l’Italia, paese di esilio, divenne per lo scrittore tedesco la sua patria d’elezione. E qui morì il 29 giugno 1970 a seguito di una operazione chirurgica. La sua tomba è nel Camposanto Teutonico, all’interno delle mura del Vaticano. Accanto all’austera pietra tombale hanno messo radici una vite e un piccolo melograno, frutto caro a tutte le religioni e simbolo cristiano del martirio fecondo.
A conclusione del suo volume dedicato a Positano, Andres scriveva: «Terrazza sulla roccia ancora non so cosa sei stata per me: luminosa piazza della socievolezza in tempi poco socievoli, oppure base della colonna di uno stilita suo malgrado; deserto angosciosamente privo di tracce oppure luogo di indelebili incontri con il sole, l’estasi, la morte e le altre grandi maschere dell’essere».