Si vanti pure e gridi alto di Gaetano Filangieri la magnifica città di San Sebastiano al Vesuvio (Na) il nome!
Nato, come al suo cuore sarebbe piaciuto, nel giorno del “ravanello”, il “nonidì” della “seconda decade” di “germinale” dell’anno XLVI prima della Repubblica Napoletana e morto a Vico Equense, nel giorno del “melone”, il “tridì” della “prima decade” di Termidoro” dell’anno XI prima della Repubblica Napoletana.
epigrafe
Queste poche riflessioni basteranno, io spero, per mostrarci la differenza che vi dev’essere, tra il sistema dell’educazione pubblica degli antichi, e quello dell’educazione pubblica dei moderni. L’uno e l’altro possono e debbono però rassomigliarsi in un solo articolo, e questo è quello dell’universalità. Se una sola classe di cittadini venisse esclusa dalla pubblica educazione, il mio piano sarebbe imperfetto e vizioso. Egli non estirperebbe il lievito della corruzione; egli perderebbe una gran parte de’ vantaggi che noi abbiamo attribuiti all’educazione pubblica; egli lascerebbe nella società una porzione de’ suoi individui privi di que’ soccorsi che la legge offrirebbe agli altri per condurli a’ suoi disegni; egli renderebbe la legislazione tutta parziale ed iniqua, poiché l’uguaglianza delle pene e de’ premi diverrebbe allora un’ingiustizia manifesta.
(Gaetano Filangieri, “ Scienza della Legislazione” libro IV)
Ed anche per te, maestro Filangieri, della città di San Sebastiano al Vesuvio figlio che della legislazione ne facesti scienza” … canterò il mio canto!
E poiché per me, che con “il collo travolto… tra ‘l mento e ‘l principio del casso” da tempo cammino guardando all’indietro “a bene sperar non ci è cagione” il nostro, sarà il mio per te un canto triste di oneri compreso e rimpianti. E poiché non conosco del mio tempo né il pensiero né la meta e quale del poeta la “bella musa” di Zante fremendo, “vagolo” “tra plebei tumuli” cercando ove “dorma”, maestro, quel tuo “sogno” e quella tua universale aspirazione che fu già del tuo lontano maestro ateniese, mi chiedo dove ci porterà questo presente senza passato. E domanda mi sorge di quando ancora giovane matricola, sposando ai miei studi la tua città, novella matricola, mi portasti a pellegrinare per quei luoghi ove regnando il “re lazzarone”, videro a quel tuo sogno di libertà e giustizia sacrificare la sua migliore “intellighenzia”, ed io ti vidi, maestro, tra quelle lapidi, quelle mura e quel “mercato” che non mai bastò alla ferocia borbonica, ancora vivo e tanto mi commossi, che ancora oggi che tra le macerie del mio tempo vagolo, torno a te, maestro, e non solo per alimentare i mei lontani giorni perduti ma, anche se non si convenne allora, forse per tentare quella “speme” che “ultima dea” la tua gloriosa quanto sfortunata “Rivoluzione” fece intravedere: eredità di uomini, di eroi e idee!
E ricordando il filosofo che di Sarkozy si chiese “di che cosa era il suo nome” anche noi di te, maestro, ci chiederemo “di che cosa era il tuo nome”, e come era cominciato tutto questo?
Terzogenito di un principe e di una duchessa poiché, come si dichiarò dal tuo primo precettore, eri poco incline o attento allo studio “poiché dimostrava sì poca inclinazione alle lettere, che altra speranza non rimanea che di consegnarlo a Marte” presto, come dei figli cadetti allor si comandava, venisti avviato alla carriera militare e per sangue e schiatta, a sette anni già sottotenente di fanteria, a diciassette anni abbandonasti chè altro di contro al tuo “aio” il tuo destino preparava. E tra i tanti che allora dell’“illuminismo napoletano” tennero la fiamma accesa, tu fosti tra i “philosophes” tra tutti dei giuristi il più grande.
Ed, in verità, non passarono da quell’abbandono che due anni quando, in un tempo non ancora acerbo, appena ventenne, con quel tuo pamphlet sulla “Morale dei legislatori”, tutto ti offristi a quel “riformismo illuminato” che, per la giovane età di un re, che poi si farà tiranno e per la lungimiranza dell’azione governativa di un ministro che veniva dalla Toscana, anche Napoli con Vienna e con Berlino stava sperimentando e che tu, maestro, nella consapevolezza del “cittadino” e non del “suddito” non mai più abbandonasti.
Era, infatti, il tempo di quel “secolo dei lumi” che sceso dalla Francia in Italia in Napoli non solo non si replicò ma di molto più ed oltre si arricchì facendosi ancora più grande e maturo. E con il contributo di pensatori alti come Galiani, Genovesi ed ancor più dello stesso Vico che alla “ragione” dando in pegno la “storia” l’aprì al romanticismo, Napoli si erse e con Parigi gareggiando pose le basi di quel pensiero che le tue “Riflessioni politiche sull’ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia”, già si annunciavano “rivoluzionarie” e che avanzando nella speculazione di altri, molto si portò a segnare in avanti della giustizia i fini e confini.
E così incoraggiato da questa nuova stagione di idee e di fermento, che vedeva un regno appena nato (leggi il trattato di Vienna del 1738) aspirare a diventare grande, Napoli presto, e non solo urbanisticamente, si fece capitale “illuminata” di quell’Europa che ancora continuiamo a sognare. E tanto fu l’ardore e il sogno di quella “fratellanza massonica” di cui fosti un “primo fratello”, che quando un terribile terremoto distrusse devastando molti villaggi della Calabria, tu, con gli altri tuoi “fratelli ”non mancasti, e come già il Quacchero nel Nuovo Mondo, vi spendeste in quella novella Filadelfia calabrese: una città libera e giusta, dove “l’armonia che deve avere la legge co’ principi della natura, dal rapporto che essa deve avere con lo stato della nazione alla quale si emana… sviluppando i principii più generali che deve avere ogni legge” ne sono il segno solenne. E dove tutti, non più sudditi, ma “cittadini” all’unisono, progressivamente, potessero avanzare verso quella “città ideale” dove non alla proprietà fosse garantito il diritto ma alla “felicità”.
Un sogno ed un progetto politico possibile che tu, maestro, subito sposasti, forse però di contro troppo presto a fronte di quelle che sarebbero state le prime avvisaglie di quella funesta e terribile tirannia che sarà poi il regno di quel tal re “Lazzarone”. Prima infatti, non estranea a tutto questo la regina “austriaca” che osteggiando la politica filospagnola del primo ministro Tanucci lo fece prima sostituire dal corrotto Marchese della Sambuca (anno1776) e poi al suo stesso amante, l’ammiraglio Acton che sterzando rovinosamente dalla Spagna verso l’Inghilterra ed l’Austria ne fece un loro “stato satellite”. E in pochi mesi tutto cambiò, molte porte si chiusero, tanto che d’intesa con il tuo grande amico della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” primo estensore, pensasti persino di lasciare Napoli per l’America e di andare a vivere lì dove, in quella “agognata città dei Fratelli”, abitava con la giustizia e libertà il tuo sogno. Non partisti chè troppi erano i problemi e non c’era tempo ma continuando nel tuo sogno di libertà abbandonasti la città dove eri nato e ospite gradito te ne venisti nella nostra bella Cava, dove nella quiete della villa della famiglia Carraturo, al mondo regalasti il tuo più bel fiore, quella “Scienza della Legislazione” di cui, si narra, Napoleone, nel silenzio del suo raccoglimento chiuso, tenesse “livre de chevet” ogni sera leggerne qualche pagina.
Un’opera capitale che anticipando molti dei temi che saranno della futura giurisdizione legislativa ti eleggerà tra i più grandi giuristi del tuo tempo. E basti alla gloria del tuo libro ricordare non solo il sacrificio di quei centodiciannove più tre donne, “patrioti” che, scatenandosi l’ira borbonica, pagarono con la vita il loro sogno, ma l’imperitura memoria di quella ultima seduta in cui il “Governo Provvisorio” volle intitolarti la “Sala dell’Istruzione”, oggi il Ministero della Pubblica Istruzione: tanto, maestro, il tema dell’educazione del popolo ti fu caro.
E così, pur avvisato degli eventi che stavano per scatenarsi, continuasti e ritornando a quel grande “figlio di Atene” di cui a Napoli si tenne per altri e pensa ,lettore, Francesco Mario Pagano, alto il nome, ti adoperasti perché giuste conseguissero le leggi all’uso della “ragione” e votate “in armonia con la natura” oltre il mito di quel “buon selvaggio” che altrimenti per te, maestro, portato di contro all’affermazione di sé, urgeva invece di giustizia e di leggi. Di leggi fondate su principi“astratti ed universali” validi per tutti e non, come invece riteneva l’autore dello “Spirito delle leggi” da cui, come tu stesso scrivi “un uomo, che ha pensato prima di me, e che co’ suoi errori istessi mi ha istruito” chè tu di contro, maestro, avevi non la Francia come orizzonte ma il mondo: un “mondo nuovo” dove uguaglianza, libertà e fratellanza regnassero per tutti in ogni luogo e per sempre. Perché essendo la “ragione”, continuavi, patrimonio di tutti gli uomini, non potevano le leggi dalla sua universalità trascendere anzi, progressivamente, avanzando tendere a quel fine ultimo che è non la “felicità” del singolo individuo ma della “collettività” tutta. Un sogno ambizioso, velleitario forse ma non impossibile se tutti, credendo nell’azione della “ragione” non raddoppiando “il soldo all’artigliere che ha avuta l’arte di caricare un cannone fra lo spazio di quattro secondi” ed addestrandoli ad un“mestiere così distruttore” da poter, scrivevi, oggi “distruggere ventimila uomini fra lo spazio di pochi minuti” non risolvendo mai “un solo problema” ma premiando di contro “l’agricoltore, che ha tirati due solchi” e sopra ogni cosa riconoscere “ che ci è un altro mezzo che indipendente dalla forza e dalle armi, per giugnere alla grandezza; che le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale…ed è cosa strana … che fra tanti scrittori che si sono consacrati allo studio delle leggi, chi ha trattato questa materia da solo giureconsulto, chi da filologo, chi da politico,ma non prendendo di mira che una sola parte di questo immenso edificio: chi, come Montesquieu, ha ragionato piuttosto sopra quello che si è fatto, che sopra quello che si dovrebbe fare: ma niuno ci ha dato ancora un sistema compiuto e ragionato di legislazione, niuno ha ancori ridotta questa materia ad una scienza sicura ed ordinata, unendo i mezzi alle regole, e la teoria alla pratica. Questo è quello che io intraprendo di fare in quest’opera, che ha per titolo “La Scienza della Legislazione”. E così convinto che la “ragione” prevarrà da “ottimista” quale era dovuto ad ogni illuminista, dichiarando già nella “Introduzione” che il tuo fine “altro non è che di facilitare ai sovrani di questo secolo l’intrapresa di una nuova legislazione” intraprendesti “un lavoro non solo così difficile e così complicato” che ne rimarrà poi memoria in eterno.
Un’opera che nei tuoi progetti avrebbe dovuto essere composta di sette libri per di più così divisa :“Nel primo libro, tu stesso enuncerai, “si esporranno le regole generali della scienza legislativa; nel secondo si parlerà delle leggi politiche ed economiche; nel terzo si parlerà delle leggi criminali; nel quarto libro si svilupperà quella parte della scienza legislativa che riguarda l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica; nel quinto libro si parlerà delle leggi che riguardano la religione; nel sesto di quelle che riguardano la proprietà; nel settimo ed ultimo libro finalmente si parlerà di quelle leggi che riguardano la patria potestà, ed il buon ordine delle famiglie”. Un “immenso”, come ti piacque di nomarlo, “edificio” eretto a quel sogno di “egalitè, libertè, fraternitè” che di lì ad un anno dalla tua morte, non avevi ancora compiuto i trenta più sei anni, sarebbe venuto e che non solo non sperimentasti ma non ti permise nemmeno di finire la tua opera. E se poi, qualcuno osservando scrisse che il tuo genio non si era prodotto a definire quei “principii più generali (astratti ed universali) che deve avere ogni legge” pure però di contro montò la tua grandezza, quando affermando che il “filosofo deve essere l’apostolo della verità, e non l’inventore de’ sistemi” perché “finché la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere umano” sempre “il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, di illustrarla. Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro”, tu ti levasti e fra tutti ti assidesti maestro. E così, nella accesa convinzione del tuo magistero “tutto per il popolo” affermasti ma “nulla attraverso il popolo” e qui il tuo più grande cruccio: l’educazione popolare, ben conoscendo i rischi di un popolo che “plebe” mal nutrita al “bene comune” si fa spesso strumento violento di un potere tirannico. Quindi prima di tutto l’educazione del popolo ma anche la difesa strenua della sua dignità quando tuonando contro “l’Europa che si rende colpevole della ignominia della tratta degli schiavi, mercato di vite in dispregio di tutti i principi di quella religione cristiana alla quale gli Europei pretendono di ispirarsi la loro esistenza” non mancasti di scagliare i tuoi strali contro, scrivevi, tanta “sporcizia”. E così non mai mancandoti la grande la lezione vichiana, ti volgesti a quell’“immenso edificio” che fu la tua gloria e contestando agli inglesi il diritto alla “proprietà” proclamasti del popolo quale “diritto inalienabile” la “felicità”, quella felicità che non “a caso” brilla nella Dichiarazione di Indipendenza americana. E tanto ti “consacrasti allo Stato” che non mancasti, in una delle tue pagine più celebri, di affermare che non solo l’intellettuale deve sacrificare “agli interessi eterni del genere umano” la sua gloria personale ma, in un ritrovato “stoicismo” di antica memoria, deve farsi anche “il contemporaneo di tutte le età e il cittadino di tutti i luoghi”. E tanta la tua fama esulò che presto, tradotta in molte lingue dell’Europa la tua opera tutti vollero averne una copia e molti, come accadde a quel tal grande poeta di Germania che del suo “Viaggio in Italia” lasciò testimonianze indelebili, vollero anche “personalmente” conoscerti. Ed intanto che il tuo nome avanzava e tu felice, maestro, del tuo sogno che per l’Europa volava, avresti voluto continuare ma covava perfido nel segreto il “morbo” che da tempo attanagliava i tuoi polmoni e così, pur a malincuore, dovesti nuovamente trasferirti e nella speranza della dolcezza del clima della nostra costiera in Vico Equense, in quel castello di Giusso che fu già di tua sorella, venisti, con la tua famiglia ad abitare, ma troppo aveva già camminato il nemico e non passarono che pochi mesi che già negli ultimi giorni del mese, come ti sarebbe piaciuto di dire, di “messidoro” lasciasti questa terra e questa vita e… poiché, come già un altro grande scrisse, “fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole” io ti saluto, maestro Filangieri, chè questo tu fosti e di questo il tuo nome “diceva”.
Questo, maestro, il mio epigramma per te: E se con Senofonte Atene non mancò Napoli della sua “ape operosa” farsi corona.
Questo, maestro, nei giorni dell’aprile irrequieto, l’amore e il fiore che ti porto!
Chiusa, come al tuo cuore sarebbe piaciuto, nelle ore antimeridiane del giorno del “ravanello”, il “nonidì” della “seconda decade” di “germinale” dell’anno CCXXIV della Repubblica. (Mercoledì 19 aprile dell’anno del Signore 2023).