EPIGRAFE
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria.
(E. Kant, “Critica della Ragion pratica”)
Comincia … ora la seconda parte de la “Epistola” a Kant ne la quale, chiamata a “tribunale” la “ragione”, si tratterà de la “Critica della ragion pratica” e come già per la “Prima”, di provare se mai anche in questa “Seconda” non sia la ragione capace di farsi “legislatrice” di una “legge morale” valida per tutti, chè … come per la “conoscenza” anche per la “morale” non urge, come bene osservasti qualche anno prima in quella tua opera “popolare” di stabilire “cosa” ma “come “, chè altro è l’obbedire ai dei precetti o dei “comandamenti” che l’autentico agire morale!
Ed allora avvisato da tanto monito che altori suona ancora nell’universo della “morale”, mi rimetto, maestro, in cammino e discepolo inesperto, quale mai fu un disegno appena abbozzato, mi apparecchio a seguirti in alto levando della “ragione” il vessillo ed oso con te di procedere alla meta: chè se, in quella rivoluzione che tanto amasti , alla tua filosofia non fu “dea” tuttavia ne fu certamente la “padrona” assoluta , chè tu, maestro, illuminista lo fosti davvero e nel profondo il più alto di tutti. Tanta per la “ragione” e quella sua rivoluzione fu la tua ammirazione che a “gran dispitto”, narra l’aneddoto, della tua rigorosa puntualità, avvisato che un messaggero stava per arrivare in città portando di quella rivoluzione notizie, che tu, senza altra mora, deviasti (cosa che non sarebbe mai più accaduta!) e deragliando dal tuo solito cammino affrettasti il passo per andargli incontro, con grande sgomento dei tuoi concittadini che al loro orologio quel giorno non poterono correggere l’ora!
Troppo quegli uomini e quegli ideali somigliavano al tuo sogno a quella “comunità etica” a quella “chiesa invisibile” il cui trionfo sulla terra avrebbe tra gli uomini fatto regnare sovrana la “pace perpetua”. E se ancora dopo due secoli ed oltre rimane ancora quel sogno irrealizzato, pure ancora urge, maestro, e nei popoli schianta quel loro grido se solo qualche anno dopo, ricadendo oltre le Alpi, tinse di “rosso” con il sacrificio estremo dei suoi centoventitrè “patrioti” quella nostra breve quanto gloriosa “Rivoluzione” che ancora ci ammonisce: chè questo, maestro, come ben sai, quando affermi che imperativa è dentro di noi la “legge morale”, è ancora il cammino!
Affermi in verità che l’imperativo della “legge morale” è un “fatto di ragione” e che per essere chiaramente “evidente” non necessita, come un qualunque altro fatto, né di deduzione né di spiegazione ma da se stesso esiste e nessuno può negarlo e nella “pratica” si manifesta come “volontà” in forma di“imperativi” che richiedono obbedienza, come meglio leggeremo più avanti, alla maniera di Rousseau e … che ora vale la pena di esaminare. Nella loro formulazione essi si presentano di due tipi. I primi che chiamerai “imperativi ipotetici” sono quelli che comandano nella formula di“se vuoi una vecchiaia serena devi risparmiare” che per essere dalle nostre “inclinazioni sensibili” mossi al raggiungimento di un fine, come tu stesso scrivi: “sono condizionati, cioè determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto relativamente a un effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, sono bensì precetti pratici, ma non leggi” interessati ed utilitaristici e quindi incapaci di reggere una “legge morale” che altrimenti ha da essere “oggettiva e universale valida per la volontà di ogni essere razionale”… tutto al più nella loro privatezza possono al massimo dar luogo a delle “regole di abilità”, dei “consigli di prudenza” per conseguire sulla terra la felicità ma non mai porsi come “leggi, chè … a questo: fondare una “morale” universale e valida per tutti tu chiamerai a farsi artefici patenti i secondi: quelli, che con altro nome chiamerai “imperativi categorici” e che comandano senza precisare né circostanza, contenuto o fine dell’azione ma semplicemente “fai ciò che devi” e sono nella loro formula assolutamente privi di contenuti e quindi “formali”, prescrivendo all’uomo solo e solamente la pura e semplice adesione al “dovere per il dovere”, realizzando come già nella “Prima Critica” anche qui nella “Seconda” quella “rivoluzione copernicana” che fu già il tuo vanto. E che ora ricorrendo nella assoluta ”autonomia” della ragione che “determina per se stessa la volontà (non in servigio delle inclinazioni), è una vera facoltà superiore di desiderare, a cui è subordinata quella patologicamente determinabile. La ne differisce realmente, anzi specificamente, da questa facoltà in modo che anche la minima mescolanza degli impulsi di quest’ultima nuoce alla sua forza e preminenza, allo stesso modo che il minimo elemento empirico, come condizione, in una dimostrazione matematica, diminuisce e annulla il suo valore e la sua efficacia. La ragione in una legge pratica determina la volontà immediatamente, non mediante l’intervento di un sentimento di piacere o dispiacere, neanche di un sentimento per questa; e solo il fatto che essa come ragion pura può essere pratica, le rende possibile di essere legislatrice” si fa garante unico di una “legge” autenticamente “morale” ed universale e valida per tutti. E saranno “capitali” al suo imperativo categorico quelle tre declinazioni modali che tu, maestro, sinteticamente raccogliesti all’uomo che volesse essere virtuoso: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”, “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella ogni altro, sempre anche come un fine. E mai semplicemente come un mezzo” ed ancora “agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa considerare se stessa come universalmente legislatrice” chè … mai la “legge morale” potrà comandare contenuti, come ben spiegasti in quella tua opera “popolare”, ma solo di agire il “dovere per il dovere” e che per essere troppo alta e disinteressata alle umane “miserie” non piacque al tuo grande connazionale della città di Stoccarda primo figlio, che accusandoti di eccesivo “formalismo” invocò invece alla sua “legge morale” con il diritto alla realtà la possibilità di fare priorità, abbandonando quel solco forse troppo “rigoroso” che tu altrimenti processando così continuando reclamavi: ”l’autonomia della” volontà, è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono … cioè il principio unico della moralità consiste nell’indipendenza da ogni materia della legge (ossia da un oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima deve essere capace. Ma quella indipendenza è la libertà nel senso negativo, invece questa legislazione propria della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso positivo. Dunque la legge morale non esprime nient’altro che l’autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà; e questa è la condizione formale di tutte le massime, alla quale condizione soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema” riponendo in quella“libertà nel senso positivo” tutta la tua legge morale. Libertà che alla maniera di Rousseau, tu intendevi come libertà individuale di ubbidire “volontariamente” alla legge che ci siamo prescritti e che non possiamo, se vogliamo moralmente agire, non onorare e che tu raccogliesti in quel “tu devi quindi puoi” che diventò il tuo apoftegma e nel quale, oltre il filosofo che nella storia volle la sua legge morale, tu, maestro, ti riconoscesti riponendovi tutta la tua vita e quel … “sommo bene” che essendo la perfetta unione tra “virtù e felicità” non può non rimanere l’aspirazione più alta, la meta ultima più ambita e che, scrivi ancora, “ognuno di noi ha il dovere di cercare e di promuovere”, procurando, e tu ne eri ben avvisato, però una macchia all’imperativo categorico che comandando un fine contraddirebbe altrimenti la purezza della legge morale. Eppure, maestro, pur ammettendo che sulla terra non avrebbe potuto esistere mai nessun uomo più degno di conseguire il “sommo bene” che l’uomo virtuoso per le ragioni che abbiamo appena esposto non lo avrebbe potuto mai raggiungerlo. Eppure, continui, maestro, egli sente, quasi per una attesa di giustizia, che chi “virtuosamente” viva debba potere essere anche “felice” e se non sarà possibile in questo mondo “fenomenico” dovrà esserlo “necessariamente” in un altro: pena la validità della legge morale ed il nostro stesso agire morale. Ed ecco allora che l’“imperativo categorico” che della legge morale si dichiara signore, per necessità, derivare quelle tre lontane “idee” di ragione che negando alla “metafisica” ogni ambizione nella “Prima Critica” tu, maestro, scacciasti per la loro assoluta mancanza di contenuto e che ora proprio per quella loro velleitaria esigenza di cogliere l’assoluto avanzano e ponendosi a “condizioni necessarie ed essenziali” del nostro stesso agire morale si prendano sotto forma di “postulati” ovvero di verità che per la loro “immediata evidenza” non hanno, e sia pure il paradosso, bisogno di essere dimostrate, anche se precisi, maestro, che essi “non sono dogmi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare” e continuando: ”questi postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà positivamente considerata (come causalità di un essere in quanto questo appartiene al mondo intelligibile), e dell’esistenza di Dio. Il primo deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata corrispondente all’adempimento della legge morale; il secondo dalla supposizione necessaria dell’indipendenza dal mondo sensibile e del potere della determinazione della propria volontà, secondo la legge di un mondo intellegibile, cioè della libertà, il terzo dalla necessità della condizione di un mondo intellegibile per l’esistenza del sommo bene, mediante la supposizione del sommo bene indipendente, cioè dell’esistenza di Dio” ma semplici supposizioni “pratiche”. Ed anche se non potrò mai affermare che “io so che Dio esiste” o che io so che “l’anima è immortale” perché nulla aggiungono alla nostra conoscenza “fenomenica”, potrò sempre, con la forza della volontà, sostenere che “io voglio che Dio esiste e sia l’anima sia immortale” e tentare quella soglia del mondo “noumenico” che altrimenti nelle modalità “spazio-temporali” della “Prima Critica” prima ci sfuggiva e che ora grazie alla “Seconda” ci sembra possibile ed è qui il “primato” che alla “Ragion pratica” vanterai, di cogliere in quella nostra profonda mai sopita aspirazione al “sommo bene” verso cui tutti siamo chiamati “progressivamente” nella perfezione ad avanzare per realizzare quel “regno dei fini” quella che tu chiamavi, maestro, anche “comunità etica” quasi una “chiesa invisibile” che non più su dogmi, comandamenti, riti o precetti basandosi ma sulla sola “fede di ragione” si facesse, con la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, “artefice” di quella pace “perpetua” tra gli uomini, che fu, maestro, con la tua opera tutta la tua vita!
E se da “cittadino” fu questo, maestro, questo il tuo sogno ed al mondo avrebbe potuto bastare, pure da “filosofo” però per aver all’uno mondo assegnato la “necessità” ed all’altro la “libertà” troppo li avvisavi opponenti e discepoli di quell’annoso “dualismo” che dai tempi di Platone incombeva sulla filosofia e temendo la “scure” che pure verrà, ti apparecchiasti certando se mai oltre la “teoretica” e “pratica” attività non ci fosse nell’uomo una terza che oltre operando non potesse quell’annoso “dualismo” comporre predisponendoli alla loro definitiva conciliazione. E fu così che oltre i “lumi della ragione” tu, maestro, per primo e fu festa al secolo che verrà, ci apristi al “sentimento” ed affermando che l’uomo del “sentimento del piacere e del dolore” è provveduto, tu avanzasti a quella terza facoltà che dirai del “giudicare” e che … se vorrà valere, dovrà, come le altre due, anch’essa venire al “tribunale” solenne e colà dovrà di tutta la sua “nobilitate” dare legittima testimonianza, e sarà, maestro, la tua “Terza Critica” quella del “Giudizio”, ed … alla quale come già per la “Prima” ed ancor di più per la “Seconda” che fu intensa e non priva di “inciampi” e di tanti ritorni, urge, esulando alla conquista dell’infinito in questa critica la “ragione”, che ancor più, lettore, io mi attrezzi e …poiché l’ora si è fatta tarda ed altro comanda, io mi congedo e domandandoti intervallo ti saluto, lettore, ché come già ti scrissi … al Grande Maestro per seguire una sola né due di epistole bastano!
Questo, maestro, della tua “Seconda Critica” il mio epigramma per te: “Ed ancora il tuo “cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me” risuona alto, maestro, a segnare agli uomini il cammino!”
Questo, maestro, nel novembre sconosciuto, il Corona virus, l’amore sepolto … il fiore che ti porto!
Chiusa nelle ultime ore notturne del giorno di venerdì 12 novembre 2020