È bastato un anno per dimenticare il piacere responsabile del dialogo, quel guardarsi, incontrandosi nel pensiero dell’altro come in una piazza all’alba, quando tutto può ancora cominciare. È bastato un anno per ritrovarci tra innumerevoli steccati, e continuiamo a costruirne con perizia di carpentieri.
Ormai parliamo soltanto nell’incongruità di una fredda e insuperabile distanza.
Se allora, quando potevamo incontrarci, riunirci e contraddirci in interminabili discorsi, era difficile conoscersi, ora (chiusi nella finzione di un’immagine) è diventato un risibile esercizio.
Ognuno ha “una sola vita da raccontare”, scrive Ingeborg Bachmann ne “Il trentesimo anno” (1961): ed è un racconto difficile che cerchiamo di occultare, siamo tutti come binari fuori dalle rotaie, sempre lontani da una riconoscibile stazione.
Pure, anche quel poco che la storia di oggi ci concede è moltissimo, se sappiamo analizzarlo e tenerlo caro, usando tenera e tagliente sapienza nel ricordo dei volti, l’ombra chiara del lavoro di chi abbiamo incontrato.
Ieri pomeriggio c’è stato un incontro-streaming su Sergio Vecchio, un protagonista della vita artistica di Salerno. Ma il mio computer e io non siamo riusciti a entrare nella nebbia festosa della comunicazione elettronica, dove tutto all’improvviso può diventare aleatorio e ostile, e la sintassi delle parole si scioglie nel nulla, ti allontana nell’afasia.
Sergio Vecchio è morto tre anni fa, una notizia imprevedibile, dolorosa come se lui si fosse nascosto a se stesso, all’improvviso. Tra i miei numerosi interventi che riguardano la sua arte voglio ricordare quello sul “Roma” del 12 marzo 2012, per una sua bella mostra al “Catalogo” di Salerno, in cui parlai della precisa identità e suggestiva forza del suo modo di dipingere e di vivere: che – in qualche sotterranea carsica forma – profondamente tendevano a coincidere.
Analizzando quello che chiamavo il suo “realismo onirico”, dicevo che questa categoria gli apparteneva profondamente, ed era “un modo di vivere il silenzio”. Un silenzio che lui era capace di aprire come una scena, sulla quale dipingeva le meraviglie di un difficile comunicare.
In quel mio breve scritto cercavo di avvicinarmi alle radici della sua arte: “Anche le sue parole – quando parla – sono senza interpunzioni, vivono il flusso lucente di sequenze inarrestabili, proprio come i sogni”.
Le belle opere di Sergio Vecchio presentate al “Catalogo” rappresentavano attrezzi del lavoro, gli animali notturni – tra essi i cani con ali leggere – e gli dèi.
Scriveva la storia degli uomini ricostruendone i miti.
Qualche anno prima, nel 2009, gli avevo chiesto di preparare una mostra a Pellezzano (al “MuseMuseo”, nell’antico Convento dello Spirito Santo di cui ho avuto attentissima cura dal 2007 al 2014). Dipinse 16 tele sul tema più arcaico e seducente della nostra cultura religiosa: “Il diluvio e l’arca”. L’arca di Sergio Vecchio somigliava a un treno tra le onde, ed era il suo richiamo all’infanzia, alla sua Paestum, alla notturna presenza della stazione ferroviaria.
Nella “Genesi” è terrificante: “Le acque s’innalzarono sempre più sulla terra e coprirono i monti, alti sotto il cielo”. Su quelle tele non ci sono personaggi (come, invece, nel “Diluvio” di Paolo Uccello, del 1440): come avesse dipinto la sua Paestum sommersa dal tempo.
Rino Mele