Domenica scorsa ci siamo imbattuti in un passo del vangelo di Giovanni fondamentale per cogliere la portata salvifica del messaggio cristiano, che si identifica chiaramente con la persona di Gesù. Il lungo capitolo non può essere riassunto per cui ne raccomandiamo la lettura. La portata e l’attualità del fatto narrato acquista evidenza se si considera che l’evangelista in due versetti riporta in modo stringato la guarigione del cieco nato. Più che la dýnamis, forza che sprigiona il miracolo, invita a considerare anche e soprattutto il semeîon, cioè un segno col quale tramandare il significato profondo del gesto che accompagna per sempre l’umanità, da luce e conferisce speranza alla sua storia. L’attenzione maggiore di questa pagina evangelica non è tanto per il fatto, quanto per il suo significato e per chi è all’origine del segno. Non a caso lo spazio maggiore è dedicato al tentativo di processo in contumacia che si scatena su Gesù e che ha per testimone il cieco guarito.
Questo incontro con un uomo non vedente dalla nascita evoca molto bene la condizione nella quale ci si dibatte nel quotidiano. Gesù vede lo scarto dell’umanità e si avvicina. Mentre gli altri tirano dritto, egli si ferma anche se non chiamato perché per lui ogni incontro con l’uomo è una meta, al contrario di chi si reputa suo discepolo e di fronte agli ultimi, bisognosi nati malati o divenuti tali, s’interroga per cercare di attribuire le responsabilità dei limiti, del male.
Il cieco è talmente rassegnato alle sue tenebre che non chiede nulla. E’ Gesù che interviene. Il gesto di spalmare fango sulle palpebre è un evidente richiamo alla creazione, in questo caso una nuova creazione capace di restituire lo splendore della luce dove sono precipitate le tenebre. Al cieco nato è richiesto solo di lavarsi ed il mendicante è pronto ad obbedire. Egli si fida di questo sconosciuto anche prima che avvenga il miracolo perché colpito dal gesto di misericordiosa condivisione, di attenzione non richiesta. Così egli torna libero, novello figlio della luce. Ma il fatto non determina gioia, questo passo del vangelo è intriso di tristezza: Gesù ha guarito di sabato, ecco il grave problema.
Ai farisei scandalizzati non interessa la persona, ma riflettere sul caso in riferimento alla loro tradizione, ritenuta una radicata e immodificabile dottrina per cui si processa per eresia l’uomo miracolato. Il cieco guarito non è ritenuto manifestazione della gloria di Dio, un uomo con la luce negli occhi e l’amore nel cuore, un mendicante rialzatosi, ma degno soltanto di essere processato e con lui Gesù.
A questo punto nel racconto emerge la tecnica dell’evangelista che sottolinea il messaggio ricorrendo ad una sottile ma efficace ironia: un non vedente incontra la Luce ed è capace di vedere, chi vede pur incontrando Gesù risulta di fatto cieco alla verità. Gli stessi discepoli non sanno andare oltre i loro convincimenti e il dettato di una dottrina che lega malattia e peccato. A loro non importa la sofferenza di un uomo, sono curiosi di spiarne il peccato alla ricerca del colpevole ritenendo la sofferenza punizione per mali compiuti. Chiedono lumi a Gesù e, sorprendentemente, ricevono una risposta che li confonde ma che diventa viatico per una nostra profonda riflessione. Il Maestro vede la sofferenza e il grido di aiuto che essa racchiude, ritiene superfluo fornire spiegazioni al perché del male, la sua è una subitanea reazione di compassione per sopprimere il dolore e far trionfare la vita. Il gesto che egli compie non è magico, ma una simpatetica partecipazione alla condizione del non vedente, che si sente toccato e così percepisce che qualcuno si è preso cura di lui, quindi meritevole di fiducia perché ha riconosciuto che è nel bisogno.
Mentre nella dinamica interiore di uno spirito affranto dal dolore e dalla malattia avviene tutto ciò, gli altri si preparano a celebrare il loro asettico, sterile e crudo processo. Per primi sono coloro che condividono l’esperienza quotidiana del non vedente ora guarito. Sarà proprio lui? Si chiedono. Il cieco rivendica con decisione la propria identità e racconta cosa gli è accaduto. I curiosi gli sollecitano d’indicare dove possa essere Gesù per incontrarlo. Egli non sa che rispondere. Allora per procedere a un definitivo chiarimento lo portano dai farisei perché si pronunzino sulla giustezza del fatto avvenuto di sabato. La sentenza viene presto pronunciata: chi infrange il sabato è un peccatore, quindi non può compiere una buona azione. Ma a questo sillogismo parolaio il guarito, che constata nel suo corpo l’assurdo di quella conclusione, contrappone la sua testimonianza: “È un profeta”, compiendo un altro passo verso la scoperta dell’identità di Gesù. I sapienti ritengono inconsistenti queste parole per cui considerano opportuno interrogare i genitori per accertare definitivamente i fatti; conculcando i sentimenti parentali costoro se ne lavano le mani e rimandano al figlio la responsabilità dell’accertamento di una verità che potrebbe risultare pericolosa. Il dibattimento processuale è alle battute finali: mentre i sapienti asseriscono che Gesù è peccatore, con ironico buon senso il guarito conferma: sa è che era cieco ed ora ci vede. Alla loro insistenza continua “l’ho già detto, forse volete risentire la mia testimonianza per diventare suoi discepoli?”. E’ una risposta provocatoria; offende la presunta sapienza dei farisei. Gli autoproclamati giudici si riconoscono nella tradizione, quindi non possono ammettere l’evidenza di una buona azione compiuta di sabato. La loro presunta sapienza impedisce di ammettere una novità di bene; per loro solo il passato è normativo, legge da rispettare per sempre per cui pronunciano la sentenza: l’uomo che era cieco e che ora vede sia cacciato dalla comunità degli osservanti, destino al quale si vorrebbero condannare tutti quelli che riconoscono Gesù quale Messia!
La vicenda raccontata da Giovanni avveniva duemila anni fa ma sembra un fatto di cronaca che segna ogni giorno la nostra stanca umanità, inquinata dall’ingiustizia, segnata dall’indifferenza, minata nella speranza.