Con la mostra “Satellites” di Miltos Manetas apriamo una lunga ed interessante riflessione sul concetto di centro, e di “schermo-mondo”, insieme a Massimo Sgroi, Stefano Pisani e Valerio Falcone. Un’iniziativa promossa dal Museo Madre – Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee di Napoli e il patrocinio della Fondazione Plart, di AMACI, della Regione Campania, della Provincia di Salerno e del Comune di Pollica. Il clima è stato segnato da semplice interconnessione, la sera del 12 maggio, negli spazi dell’Info point del Porto di Acciaroli (l’evento era la quarta edizione del Pac – Porto d’arte contemporanea, progetto ideato e curato da Valerio Falcone).
L’ospite questa volta è uno dei più significativi artisti dell’intero panorama artistico della pittura digitale, creatore del padiglione internet alla biennale di Venezia. Classe 1964, di origine greca; Manetas approda al PAC per spiegarci la funzione dei satelliti e per cercare di dare una definizione dello spazio nel quale oggi viviamo. Cos’è questo spazio, questo luogo della conoscenza, delle storie e dei miti che popola il nostro apparato sensoriale? Quali sono gli strumenti che oggi ci permettono di relazionarci con il mondo?
In mostra vediamo una foto b/n 2x1m, riesumata da un precedente progetto, e poi riadattata. Il risultato di una performance tenutasi alla fine degli anni novanta ad opera dello stesso artista e che ha visto coinvolti amici, curatori e galleristi, vestiti da vecchiette. Un’opera che ha realizzato nel passato, e che ritorna adattata nella sua forma inconclusa. A questa si aggiunge una serie di disegni realizzati durante il viaggio di ritorno da Roma, dove Manetas ha appena finito di inaugurare la sua mostra al MAXXI: “Miltos Manetas. Internet Paintings”.
Al suo arrivo, l’artista riscontra qualcosa di strano: l’immagine esposta ha subito una modificazione, lontano dai suoi occhi… Forse, un probabile incidente di stampa. Sembra che la grana filmica della foto abbia, conferito all’intera composizione più plasticità, rendendola quasi pittorica, producendo così dei misteriosi segni che solcano le mani dei modelli, molto simili a delle rughe. L’accaduto sembra evocare la storia del misterioso dipinto di Dorian Gray. Quelli che prima erano semplici personaggi vestiti da vecchiette, ora hanno, incredibilmente, acquistato le loro sembianze. Questo ha reso l’opera ancora più interessante agli occhi dello stesso artista, il quale sembra essere rimasto colpito dal fascino della sua “nuova” opera. D’altronde è proprio questo filo di continuità a tessere tutta l’opera di Manetas. Rendere un processo di lavoro continuo ed inarrestabile, così come lo è l’esistenza.
L’allestimento diventa parte integrante dell’opera. “Cosa fa altrimenti l’artista durante l’inaugurazione?” L’artista, apre lo spazio, lo plasma, lo rende dinamico, facendo diventare il suo intervento performativo. Il pubblico diventa l’oggetto delle sua pittura, quella realizzata attraverso il suo BlackBerry, dove i volti respirano, muovono le sopracciglia, agitati dal tradizionale pennello su una tela immaginaria. Il gesto pittorico viene così enfatizzato attraverso la sua smaterializzazione. Un intervento sensibile che ha dell’incredibile. “Il paesaggio dello schermo è per noi come la natura era per gli impressionisti. Noi viviamo in contatto con lo schermo, per questo ha senso dipingerlo”. Forse oggi, le “macchine” sono diventate il nuovo studio “en plein air”. Siamo infatti continuamente immersi in queste scatoline; esse contengono la nostra nuova dimensione spaziale.
Lo spazio che accoglie la mostra “Satellites” è piccolo, richiama, in maniera paradossale, quello ristretto dei contenitori dei nostri monitors. Ci raffrontiamo in uno spazio sempre più indefinito perché indefiniti sono i limiti entro cui si svolge la vita, la nostra quotidianità.Tentare di descrivere questo spazio è un lavoro a cui da anni Miltos Manetas dedica la sua più totale attenzione. Per farlo, sfrutta i mezzi tradizionali della pittura, diventata per lui strumento privilegiato di osservazione e di indagine sul rapporto tra esseri umani, computer e videogiochi.
Mentre tutto scorre ininterrottamente, sulla superficie piatta, liscia e luminosa dello schermo del suo BlackBerry, evaporano come grumi i frammenti solidi di una corporeità che sfugge e che ha difficoltà a tenersi sotto l’involucro della materia organica. Qualcosa della nostra umanità è cambiata; Il cuore pulsante di un essere umano non sta più confinato nella sua gabbia toracica, nella palude umida delle viscere organiche, ma assomiglia sempre di più ad un apparato fluido ed inafferrabile; la sua potenza risiede nella velocità, in quella falsa e impraticabile linearità rivolta ad un avvenire che non è più in avanti ma che assume più direzioni, si estende e si espande in molteplici traiettorie. È l’infinito essere in movimento. Una velocità dello stare che ci immerge in una profondità cosmica. L’artista, cercando di interpretare l’estetica che pervade la società dell’informatica, arriva a creare una sorta di “computer analogico”, una pittura che vuole essere all’altezza delle novità più recenti della rivoluzione digitale, e che mostra il suo apparire, attraverso un medium trasparente.
Riflettendo sullo statuto dello schermo quale dispositivo di visione e occultamento, nell’epoca del suo massimo dispiegamento, l’attenzione per l’esperienza schermica sembra essere centrale nella riflessione dell’artista. Il tempo in cui viviamo è infatti quello degli schermi-mondo, e lui sembra aver carpito l’orbita intorno alla quale gravita il nostro futuro. “Vivere tra gli schermi” come sostiene Mauro Carbone, specialista in estetica contemporanea, fa risalire l’ambiguità che vi è tra il nascondere e il mostrare, tra l’opacità e la trasparenza; tutto il suo profondo significato lo troviamo nel termine “schermo”. Una mostra, dunque, che ci permette di cogliere le sincronie con l’esperienza schermica, e di scorgere le continuità e le rotture, per reinventare il proprio codice visivo, emotivo e sensoriale.
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Massimo Sgroi ci rammenta che gli artisti sono “i detonatori di un accadere, coloro che fanno scoppiare la bomba del nostro pensiero”. La domanda a cui cerca di rispondere è “Perché qui è meglio che a Roma? Perché il porto di Acciaroli e non il MAXXI di Roma o il Guggenheim di New York? Forse perché lì, ha meno senso? Acciaroli paradossalmente è molto più interessante perché non ha nessuna obbligatorietà di fare strategia, in questo momento stiamo facendo qualcosa che ci appartiene, stiamo raccontando la nostra storia, quello che siamo e quello che saremo”.
A questa riflessione si aggiunge quella del sindaco Stefano Pisani, il quale porta al centro del dibattito la riscoperta del ruolo del Mediterraneo: “Il Mediterraneo deve tornare ad essere il centro del mondo, perché è qui che è nata la cultura”. Segue il concitato intervento di Miltos Manetas, portavoce di una visione meno conservatrice: “Ragazzi basta con il centro del mondo! Gli europei hanno questa fissazione di essere nel centro di qualcosa… basta con questa storia, adesso c’è un altro mondo, ci sono molti mondi, ovunque è pieno di mondi, e ci sono sicuramente mondi che sono molto più freschi, anche pieni di europei. Finché gli europei non abbandoneranno questa fantasia, dell’esistenza di un centro culturale che risiede nel Mediterraneo, questa situazione non cambierà; sarà sempre eurocentrica. Per nostra grande fortuna viviamo in un mondo pluricentrico, in un mondo moltiplicato”! Difficile piegarsi all’oculatezza mentale di un agguerrito artista come Manetas, che ha una visione pratica, avveduta delle cose, fondata sulla prassi artistica che esige sempre il nuovo per continuare a determinare ciò che sarà il passo successivo. Un momento dialettico che si protrae per tutta la durata dell’evento, per spingerci sempre più in là, e capire che il mondo in cui viviamo è un mondo moltiplicato e che esige di essere sempre più moltiplicato, proprio come l’universo che impone di espandersi e dilatarsi.
“Se dobbiamo guardare in una “fresca maniera” che non c’entra niente con tutto quel materiale turistico, educativo, propagandista che ci hanno insegnato da quando eravamo piccoli: i fantastici greci, le bellissime sculture, i romani, la democrazia, Platone, Socrate… sono stati tutti sistemi di manipolazione benfatti. Infatti, hanno funzionato per molti anni, sarebbe bello ora metterci sopra una grande X. Pensiamo invece a fare. Perché se tu non “fai”, il dopo sarà sempre lo stesso, questa è la differenza tra un MAXXI e un Porto d’Arte Contemporanea. Nel MAXXI, qualsiasi cosa farai sarà un’opera d’arte, cioè esporla è bello ma inutile. Qui, quella cosa che farai, chissà cosa sarà, allora è utile, è più interessante. È molto più interessante fare un’opera qui, che farla al MAXXI, esattamente perché non si sa che cosa diventerà. Si può tranquillamente vivere in questo mondo senza considerare nessun centro del mondo. Non vogliamo più il centro del mondo riferito all’Europa”.
La forza con cui Miltos Manetas incalza la discussione e porta il proprio pubblico a riflettere su “Qui, quella cosa che farai, chissà che cosa sarà?”, sembra essere più che mai convincente. Forse, se vogliamo approcciarci al futuro nel modo più corretto possibile dovremmo avere la capacità di creare una tale discontinuità con quello che c’era prima e sperare di rinnovare i circuiti e le modalità di pensiero, fosse anche solo cominciando a cambiare il luogo dove esporre il pensiero.