Dietro l’espressione intimidita e una cascata di riccioli, Sara Cammarosano, vallese, classe 1993, rappresenta per le giovani donne cilentane un esempio di dolce tenacia e intelligente determinazione. Eppure, ascoltando la sua storia, non si può fare a meno di figurarsi nella mente, specie per le più romantiche di noi, l’immagine di una sorta di predestinazione e di un sogno diventato realtà. Qualcosa che ci riporta all’infanzia e alle favole nelle quali abbiamo voluto credere, certe che, almeno per una su mille, quella maggiormente consapevole, le loro promesse si sarebbero realizzate.
Incontro Sara, prima ancora di decidere di invitarla a raccontarsi per noi, in occasione di una riunione di staff dell’Associazione Skenai. Per il gruppo teatrale e per una sua rappresentazione programmata per il prossimo mese di giugno, Sara è chiamata a realizzare i gioielli e gli ornamenti di scena, l’insieme, cioè, di quei dettagli che renderanno i personaggi esteticamente definiti, ognuno aderente al suo ruolo, alla sua classe sociale, alla funzione che gli spetta da copione. Perché è questo che Sara ha deciso di essere: una designer del gioiello, artigiana orafa, che crea con pochi attrezzi e pressoché zero macchinari, operando su materiali antichissimi e recuperati, monili frutto di un lavorio che è tutta fatica di mani, testa e cuore. Pura, preziosa poesia. Ma quest’ultima chiamata alla bellezza dell’arte delle gioie è soltanto un altro tassello di uno straordinario mosaico di studi ed esperienze che Sara, sin da giovanissima, ha sapientemente incasellato lungo la sua strada. Dopo il diploma svolge infatti un tirocinio presso la Pikkio, azienda romana che opera nel settore degli accessori di moda e costumi di scena. Dopodiché si iscrive al Tarì Design School nei pressi di Caserta, il centro orafo più grande d’Europa. La mattina a seguire i corsi e il pomeriggio a lavorare nelle botteghe per due anni, partecipando anche ad un concorso per Expò Milano 2015 per il quale progetta un gioiello per la Poretti classificandosi seconda. Conclusasi questa ulteriore esperienza di studio viene assunta dalla Marcello Pane Gioielli, storica azienda napoletana. Lavora poi presso un’altra giovane orafa napoletana, Sara Lubrano, fino alla decisione di mettersi in proprio, continuando però sempre a studiare.
Ci racconti brevemente la tua storia e come è nata la decisione di affrontare il complesso percorso dell’imprenditorialità?
La mia storia come orafa è radicata alla mia storia personale. Tutto è cominciato quando, all’età di tre o quattro anni, i miei genitori mi regalarono un kit di perline con cui ho creato i miei primi gioielli; era per me soltanto un gioco, così come lo sarà stato per tante altre bambine. Con pasta, lana, DAS e plastilina creavo e indossavo collane, bracciali e anelli e trascorrevo il tempo specchiandomi con in dosso i gioielli di mia madre. Col passare del tempo il mio rapporto con i gioielli, iniziato per scherzo, si è tramutato in esigenza. Anelli, collane, bracciali, sentii il bisogno di poter realizzare da me i miei accessori e fu così che iniziai anche a modificare e a personalizzare tutto ciò che avevo e che compravo, in quanto nulla di ciò, vestiti, borse e colletti, sentivo mi rappresentasse. Ebbene già dalle prime ‘’creazioni’’ ottenni vari complimenti che mi motivarono a farne ancora di più. Ma era sempre un gioco e nulla più. Un momento significativo fu nel 2004, avevo undici anni, quando un amico di famiglia mi propose di prendere parte alla festa del mio paese, Angellara, con l’intento di allestire un mio banchetto espositivo e di vendere lì le mie creazioni. Inizialmente ne fui entusiasta ma poi i dubbi assalirono la mia mente e iniziai col mettere in dubbio le mie capacità. Ne ero all’altezza? Accettai, mi misi a lavoro e nel giro di due-tre settimane avevo tutti i pezzi pronti. Arrivò quindi la fiera e già nella prima serata finii quasi tutti i pezzi. Nelle settimane a seguire fui contattata da molte signore e ragazze che volevano farsi realizzare da me accessori da abbinare ai loro vestiti. Il soggiorno di casa si tramutò in un salotto espositivo dove le signore prendevano appuntamento e venivano a trovarmi per farsi realizzare cose su misura e avere consigli su come abbinarli e come indossarli. Così mi ritrovai col dover realizzare monili da regalare qua e là, commissionatemi a casa e a scuola. Avrei potuto definirmi già imprenditrice? Credo proprio di no e, anzi, finite le scuole medie, l’impossibilità di poter frequentare un liceo artistico mi ha portato a cinque anni un po’ bui, con un rigetto totale, tanto da rinchiudere tutto in uno scatolone che seppellii sotto il letto. Presi la triste decisione di non creare più niente, né per me né per nessun altro: in quella scatola chiusi la mia creatività e la mia curiosità. Solo al termine delle scuole superiori quando mi si è posta la scelta obbligata di dovermi indirizzare professionalmente ho optato, senza remore, per la mia passione frequentando a Roma il corso di Design del Gioiello presso l’Accademia Italiana, quindi quello d’arte orafa al Tarì di Marcianise, il più grande centro orafo d’Europa.
Cosa significa per te essere imprenditrice?
Significa essere quello che sono ma non rimanendo nella autoreferenzialità. Quindi essere donna, artigiana, orafa accettando la sfida della competizione e le opportunità della cooperazione. Significa essere se stessi avendo consapevolezza di se nel proprio contesto. Significa pormi nei confronti delle risorse territoriali non considerandole come giacimenti da sfruttare ma come risorse da porre su un piano di valorizzazione reciproca, come ad esempio sto facendo con gli antichi Ori di Roccagloriosa. Ma soprattutto per me essere imprenditrice artigiana non significa soltanto dirigere e gestire ma partecipare direttamente al processo produttivo, passando le ore in bottega, chinata sul banchetto, a sporcarmi le mani tra gli attrezzi del mestiere. É, in sostanza, essere una donna di bottega.
Da piccola cosa voleva fare da grande?
Non so cosa avrei voluto fare da piccola ma ho sempre fatto gioielli.
E cosa è cambiato da allora nel suo modo di fare gioielli?
Sono cambiate tante cose, innanzitutto le tecniche di produzione, per non parlare di altri aspetti come quello di dover far fronte agli aspetti normativi e fiscali, oltre alla complessità della promozione che nelle forme odierne necessità del supporto di figure specialistiche. Ma crescendo, studiando e conoscendo, è cambiato anche il mio modo di lasciarmi ispirare e di relazionarmi col contesto territoriale in cui ho deciso di rimanere a vivere e lavorare.
Come realizza i suoi gioielli?
Dipende innanzitutto se si tratta di un gioiello che io propongo o di un prodotto realizzato su commissione, cosa che oggi è molto in voga, perché tante persone desiderano pezzi su misura, unici, realizzati appositamente per se. Ed è questo un aspetto molto stimolante dell’essere artigiano perché necessita di un confronto continuo, un dialogo costante che porta ad educare, per così dire, la committenza rendendola consapevole di aspetti, limiti e opportunità delle tecniche orafe ma, dall’altro lato, mi spinge a migliorare costantemente, ad andare oltre e a sperimentare nel provare a soddisfare i desideri del cliente.
E in che modo quella “consapevolezza di se e del contesto” di cui parlava prima si esprime nella sua attività?
Sono molteplici gli aspetti che vanno in varie direzioni. Ad esempio il vivere e lavorare all’interno del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, un’area con valori culturali che l’UNESCO, mi ha spinto a studiare e valorizzare il patrimonio orafo materiale e immateriale del Cilento, tanto con studi e pubblicazioni, tanto con attività didattiche e visite guidate, tanto nella crescita personale investendo nella mia formazione che mi hanno portato a conseguire una qualifica di Tecnico per la promozione e la valorizzazione dei beni e delle attività culturali e a seguire a Firenze un corso di restauro archeologico sui metalli.
Cosa le piace del suo lavoro? Quali sono state fino ad oggi le sue più importanti soddisfazioni?
Ciò che amo del mio lavoro è la possibilità di dare forma e corpo ai desideri, alle fantasie e ai sogni delle persone e, quando il cliente è soddisfatto il mio appagamento non è limitato, per dirla volgarmente, ai soldi che mi entrano in tasca. Quanto alle soddisfazioni più importanti sicuramente mi viene da pensare alla telefonata che ricevetti qualche tempo fa da uno dei più grandi maestri orafi italiani, Rosmundo Giarletta, che mi invitò a partecipare ad una esposizione insieme ad altri orafi italiani ed europei presso il Museo Nazionale Archeologico di Eboli ove, per l’occasione, furono esposti degli antichi ori di Pompei. Ancora oggi, vedere il mio nome e la mia opera su un catalogo mi suscita una certa emozione. “Il gioiello è più antico del costume, più antico della moda, più antico del pane“, questa è la frase con cui corredai la mia creazione e che a dire il vero mi accompagna da sempre.
Il suo essere una donna, professionalmente, le dà dei vantaggi o degli svantaggi? Le è mai capitato di essere in un certo qual modo discriminata?
Il mondo orafo è un mondo tradizionalmente declinato al maschile anche perché si tratta di lavorare col ferro e col fuoco, elementi tipicamente espressione di virilità ed è difficile immaginare che una donna faccia il fabbro! Ma più che di discriminazione nell’ambito orafo parlerei al più di episodi di maleducazione. Ma preferirei parlare delle opportunità dell’essere donna perché, io credo, possa essere un punto di forza. Proprio con un’altra donna, un’altra artigiana, la mosaicista Carla Passarelli, abbiamo dato vita ad una linea di gioielli “Musivae – Mosaic Jewels” fondendo le nostre arti con risultati commerciali molto positivi che ci stanno spingendo a proseguire questa collaborazione con nuove linee e nuove sperimentazioni.
Quali sono stati gli insegnamenti o le esperienze fatte in precedenza che le sono state più utili quando è diventata imprenditrice?
Nella mia giovane esperienza oltre agli studi specialistici che continuo a fare, raccolgo sempre i frutti dei miei studi classici, che sono un supporto imprescindibile. Ma ci sono anche delle esperienze negative di cui fare ammenda che non riguardano i propri errori, ad esempio la fiamma troppo alta quando si salda, ma che riguardano purtroppo la disonestà altrui. Ad esempio una volta mi commissionarono dei gioielli che venivano rivenduti come propri eliminando ogni riferimento a me, strappando le mie garanzie, i miei biglietti da visita e il mio packaging. È stata una esperienza mortificante così come mortificante è quando si concorda un prezzo e poi al momento della consegna il cliente ritratta.
Che consigli daresti alle giovani donne che vorrebbero intraprendere un percorso simile al tuo?
Se proprio devo dire la mia più che dispensare consigli posso solo parlare di me. Io ora sono qui e, per chi come me ha fatto delle proprie passioni una scelta di vita, non è facile individuare un momento preciso in cui sorge questa decisione, quella di fare impresa, che nella mia esperienza si è solidificata nel tempo man mano che la mia passione per i gioielli riscontrava un consistente apprezzamento di altri; un apprezzamento non limitato al semplice complimento ma riconoscendo a quello che facevo un valore economico. E quando più persone riconoscono valore economico a quello che fai e che produci, significa che riconoscono valore alla tua figura e importanza alla tua esistenza all’interno di un ecosistema. Se tu prendi atto dell’importanza che ti riconoscono le persone e decidi di investire non solo soldi ma anche e soprattutto le tue capacità, allora sei un imprenditore.
Francesca Schiavo Rappo