di Giuseppe Liuccio
Alla morte di Alfred de Musset, gli amici per rispettare il desiderio del poeta, piantarono vicino alla sua tomba un salice piangente i cui rami cadenti quasi fino a terra e le foglie pendule evocano non soltanto le lacrime ma anche il contegno che si tiene ai funerali. Ed infatti di una persona addolorata si è soliti di dire: “sembri un salice piangente”. Ecco perché nell’immaginario collettivo l’albero del salice è diventato l’emblema del ricordo nostalgico, della malinconia e del compianto. E la storia ed il mito hanno contribuito notevolmente ad accreditare questa convinzione. Nato in Cina e portato in Europa soltanto nel 19 venne classificati da Linneo come salix babilonica anche in ricordo di un versetto dei Salmi in cui si ricorda la prigionia degli Ebrei e la loro nostalgia di tornare nella Terra Promessa ”lungo i rivi di Babilonia dimorando/ la insieme piangevano a ricordarci di Sion, Ai salici di quel paese/avevamo appese le nostre cedre”. Per la verità già Omero nell’odissea aveva raccontato che Circe salutando Ulisse gli aveva dato preziosi istruzioni perché potesse nell’oltretomba “E quando co essa (la nave) avrai attraversato l’oceano ecco la costa bassa e le selve di Persefone ecco gli alti pioppi e i salici che perdono i frutti”. Ed anche i miti consolidano questa credenza. Narrano, infatti che nel giorno sacro si rievocava il mito di Demetra e kore si celebrava il mistero della vita primigenia, del campo e dell’utero che offrono nuovi frutti. Le donne, per poter riposare, preparavano un letto di rami di salici a contatto diretto della Madre terra, a fecondatrice di vita ed ha la stessa carica di simboli di fecondità e di vita la festa ebraica delle capanne, in cui il salice la fa da protagonista come nell’attribuzione di un’attribuzione messianico e salvifico al salice nelle feste cristiane cariche di simbolismo, in Grecia poi il salice era sacro alle dee lunari: Era e Persefone, Circe ed Ecate, personificazioni notturne ed ibfere della luna. Senza contare che l’albero – heliké nel greco antico aveva dato il nome al monte Elicona, sul quale dimoravano le nove Lyse, originariamente sacerdotesse orgiastiche della dea Luna, a scavare nella storia e nel mito per esaltare la sacralità del salice. E questo legame con le muse spiega a maggior ragione di essere anche un albero fonte di poesia del ricordo e della nostalgia che anche nella nostra storia è diventato compianto per le sue revetsue politiche ed esortazione eiacossa, Lo furono certamente i versi del coro del Nabucco rivestite di coinvolgente malinconia dalla musica di VERDI: Va pensiero sull’ali dorate/Va, ti posa sui clivi, sui colli/,Ove olezzano tepide e molli/L’aure dolci del suolo natal!/Del Giordano le rive saluta/Di Sïonne le torri atterrate/…Oh mia patria sì bella e perduta!/Oh membranza sì cara e fatal! Arpa d’or dei fatidici vati,/perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto riaccendi,/Ci favella del tempo che fu! O simile di Solima ai fati/Traggi un suono di crudo lamento/O t’ispiri il Signore un concento/Che ne infonda al patire virtù!”. E ritorna il lamento degli Ebrei senza patria, bella identificazione con l’Italia di metà ottocento. E non a caso il nome di Verdi fu assunto in quel periodo come l’acronimo di una battaglia per l’indipendenza e l’unità d’Italia: Vittorio Emanuele Re D’Italia.Con Identico pathos ritornò sul tema Salvatore Quasimodo negli anni della Resistenza con l’immortale “Alle fecondi dei salici. E come potevamo noi cantare/col piede straniero sopra il cuore/tra i morti abbandonati nelle piazze/sull’erba dura di ghiaccio, al lamento/d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero/della madre, che andava incontro al figlio/crocifisso sul palo del telegrafi?/Alle fronde dei saliti per voto,/anche le nostre cetre erano appese,/oscillavano lievi al triste vento”. Alla luce di questa storia e di questa poesia il salice acquista un’altra dignità ed un’altra sacralità, quando lo vediamo crescere negli umidi fossati di campagna o ai margini del pozzo immancabile nella piccola proprietà contadina dei paesi cilentani. Qui poi si riveste di un’altra aureola di sacralità: quella del lavoro, soprattutto in questo periodo quando i contadini utilizzano i suoi giunchi flessibili per la pota e la sistemazione dei piccoli vigneti, come si evince dalla mia seguente poesia sul tema, scritta in omaggio ai contadini cilentani nella rapossa sonorità del mio dialetto. “È lu mumento re nzertà le bbite/li caoi/non so ancora nnamurati/Però nu perde tiempo fa a l’ampressa/ ca ra no iuorno a l’ato lo bontiempo/, Face spruvà le chianti tutte quante/Si aspetti ancora pe n’ata semana/ le fico no le puti manco auanno/.Nc’è chiro piro ddò nnanti la casa/ca tene tutti l’uocchi allucentati/: Nu trascurà pa oreola muscata,/ cangia li pali ca so nfracetati./E pe la cenge è meglio oi ca crai/. Li salici so ddà, nnanti lo puzzo,/mbacci lo murivino re cepodde”.