di Giuseppe Liuccio C’era una volta la cucina povera. Oggi è diventata ricca e ricercata. Forse perché è la cucina genuina della tradizione. La si riscopre e la si esalta. Lo fanno gli scrittori di enogastronomia. Ne menano vanto gli chef di successo. E così anche le frattaglie diventano oggetto di ricerca accurata e i libri che ne trattano diventano fenomeno editoriale. È la girandola della rivoluzione dei gusti. L’occasione è quasi sempre la festa, magari quella del Santo Patrono/a, a cui è quasi sempre legato un piatto della tradizione, la cui memoria si perde nella notte dei tempi. Capita nei paesi della civiltà contadina, come in quelli di mare legati alla pesca. Capita nei paesi certamente e si spiega, perché nelle piccole comunità è più radicata la tradizione, ma succede anche nelle città, dove i ceti più poveri si tramandano da generazioni saperi e sapori legati alla tavola. Anche Salerno ha memoria di cucina da recuperare ed esaltare nella festa del Patrono, San Matteo: basta aggirarsi per le vie del Centro Storico nell’immediata vigilia della Festa per rendersene conto. Il profumo di aceto e menta lo si respira nell’aria e pizzica alle narici con gradevole ed appetitosa provocazione. È segno che le brave massaie sono alle prese con la milza, la “meveza”. Io ne facevo scorpacciate da ragazzo, pur non essendo salernitano doc, ma di adozione certamente, perché Salerno fu la città dei miei studi e ne divenni, quindi “curioso”, alla latina, di storia, di monumenti, di arte ed anche di tradizioni e costumi. E da quando la “signora” dove “stavo a pensione” mi preparò un filone di pane croccante imbottito di milza profumata diventai un “fan” del genere. E alla malora gli atteggiamenti schizzinosi da signorina cianciosa e vezzosa al pensiero delle interiora! La “meveza” è un rito e, come tutti i riti, ha qualcosa di sacrale ed ha le sue leggi da rispettare con scrupolo. Lo sanno bene le ragazze che si addestrano, alla scuola, tanto sapiente quanto rigorosa, di nonne e mamme, per non far morire le buone tradizioni di casa: prenotare la milza in tempo utile e con largo anticipo dal macellaio di fiducia; pulirla e lavarla più e più volte in maniera scrupolosa e quasi maniacale: ricavare delle sacche nelle milze, dove inserire un impasto, “ ‘o mbuttuno”, di prezzemolo, menta, peperoncino, aglio e sale (il dosaggio è frutto di grande esperienza ed è garanzia di bontà); soffriggere nell’olio per 15/20 minuti dall’uno e dall’altro lato la sacca; a fiamma accesa aggiungere aceto e vino rosso, lasciare sfumare un po’ e poi aggiungere ancora aceto e vino a cottura lenta per circa due ore. A cottura ultimata la milza va adagiata in una “sperlonga”, tagliata a fette e lasciata riposare per due ore circa; particolare non trascurabile, la milza va servita fredda e ancora bagnata con il residuo del condimento precedentemente preparato ed eventualmente rimasto. Nelle case del Centro Storico, ma non solo, è un rito/devozione. Ma non mancano i ristoranti, soprattutto i più antichi, che ne ripropongono il piatto nel giorno della Festa (21 settembre). Io non manco quasi mai all’appuntamento. E c’è sempre una consistente porzione di “meveza”, preparata con impareggiabile maestria e conservatami con affetto dalla signora Lucia, mia vicina di casa. Anche per questo non manco all’appuntamento di San Matteo. “scendendo” da Roma, mettendo da parte qualsiasi altro impegno. Ma il menu della festa non prevedeva e non prevede solo milza. Immancabili i “mezzi ziti” con il ragù cotto a fuoco lento, un tempo nel “tiano” di creta che “pippiava” per ore e inondava di profumi case, vicoli e slarghi. Non mancava la frittura di “mezze triglie” e/o di paranza. Per frutta fette abbondanti di angurie, le ultime a mezzaluna, meloni bianchi, i primi “vernini”, saporitissimi, piatti fondi strapieni di fichidindia sbucciati, raccolti sulle barricate a strapiombo di calanchi di mare, i fichi bianchi e “troiane” dal tipico sorriso rosso, specialità di stagione, e canestre di uva “sanginella” zuccherosa e “rusecarella” coltivata nei brevi pianori di Pastena o sui petti di colline assolate che esplodevano ed esplodono di luce a “paradisiello” (felicità espressiva di un toponimo!) di Pastena e salendo su su verso Giovi, che si apre all’infinito del mare con sullo sfondo i contrafforti dei Lattari con i ricami dei paesi della Divina Costiera a scivolo sull’acqua con il prezioso carico di case, chiese con cupole maiolicate nella gloria della luce e campanili ariosi, da un lato, e Paestum, Licosa, Palinuro e la Costa dei Miti e della Grande Storia, dall’altro. Per ingannare il tempo nel lungo pomeriggio prima della solenne e fastosa Processione era d’obbligo la passeggiata per il Lungomare. E curiosità e sfizi non mancavano. C’era, ad esempio, l’immancabile postazione del carrettino/chiosco colorato del venditore che dava la voce con modulazioni musicale “o per e o muss!”. Per gli amanti del genere, e ce n’erano allora e ce ne sono ancora, si poteva acquistare una porzione di carne di maiale (stinchi e muso) già cotti ed ampiamente innaffiati da succo di limone, magari di sfusato amalfitano, il meglio in circolazione, allora come ora. Chi voleva o volesse la coppetta al limone la meta era ed è il chiosco della Villa Comunale che allora consentiva anche una sguardo divertito alla fontana/vasca delle “paparelle”, divertimento cercato e garantito per bimbi e relativi nonni. Ma non mancavano altri sfizi da gustare in postazioni affollate: le spighe di granturco nella duplice versione, “lesse” e “arrostite”, “’o spasso” con tanto di “cuoppo” di lupini o di semi di zucca e ancora, per un ulteriore supplemento di assaggio, dopo quello del pranzo, una pigna d’uva sanginella con tralci carichi ad arredo di bancarella con venditore dalla voce arrochita per il richiamo. Non mancava qualche sbruffonata di gara per battere il record di fichidindia mangiate, anzi divorate, con tanto di tifo di supporter spesso con conseguenze poco piacevoli. Non mancava quasi mai il sorriso compiacente di qualche ragazza con il vestito nuovo sfoggiato per la festa, procace e appariscente, a cui si affibbiava il termine “nanass”, con cui si indicava il ficodindia, con chiare metafore di apparente spigolosità a primo approccio (le spine del cilicio della scorza) ma anche di dolcezza nel gustarne il frutto segreto succhiato con gusto, a simpatia conquistata e contagiosamente condivisa. E i giovanotti più intraprendenti non risparmiavano esplicite allusioni se adocchiavano ragazze minimamente compiacenti canticchiando una canzone che ai miei tempi andava di moda e che diceva più o meno: “T’è fatta ‘a gonna lilla/ c’ ’a blusa gialla/ ‘a borsa ‘a panariello/ Che novità!/ Ma nu consiglio, oi bella, te voglio dà:/Sti scullature atomiche/ nun ‘e portà/ C’ ‘a questura/ si l’appura/ nun te fa chiù cammenà/Uè nanass sì chiù doce ‘e nu baba’!” Più di uno ci provava e qualcuna ci cadeva e magari scoppiava l’amore con il primo bacio “’arreto ‘e chiancarelle”. Il Crescent con conseguenti polemiche era di là da venire. Anche questo era la Festa di San Matteo; e più di un amore è scoppiato al ritmo dei sibili delle granate che si aprivano a stelle, fiori e fontane nel blu lavagna di settembre quando l’autunno incipiente e caldo prolungava ancora l’estate con la stagione dei bagni al pennello e “all’acqua del fico.”
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