Esiste un luogo, incastonato nel lembo dell’entroterra della provincia di Salerno, dove il sole filtra, ma filtra nelle pieghe dei vicoli, dove il vento soffia ma non c’è quasi nessuno ad ascoltare il proprio impercettibile suono.
Esiste un luogo, che non è solo luogo dell’anima, ma è luogo fisico e tangibile, di terra, polvere e aria: è Roscigno Vecchia, anche detta Pompei del Novecento, perché incastonata in una dimensione sacrale, fuori dal tempo e dallo spazio, imbalsamata in un passato che non può più tornare e che è l’unico compagno di Roscigno Vecchia, avvolta dalla solitudine e dalla nostalgia.
La storia del paese è tanto affascinante quanto suggestiva, e nel ripercorrere il racconto del suo abbandono e dei suoi tratti caratteristici, si rimane ammaliati nel rendersi conto delle vicissitudini del borgo fantasma.
La storia di frane e alluvioni di Roscigno è nota a tutti gli abitanti dei paesi limitrofi, che nel corso dei secoli hanno sempre osservato la riedificazione progressiva del cosiddetto “paese che cammina” (appellativo che Roscigno si è conquistato per via della sua mobilità): è stato riedificato e ricostruito per ben tre volte, nel corso del 1600 e del 1700.
Nel 1776, nella zona interessata dalla frana in località “Molinello”, si formò un piccolo laghetto a causa della forte depressione del terreno, il signore Mazzeo Francesco pensò di tuffarsi per misurarne la profondità, ma si persero le sue tracce per ben otto giorni, dopo dei quali venne ritrovato il suo cadavere.
Roscigno Vecchia, ad oggi è disabitata per via dei pericoli dati appunto dalle diverse frane, e la popolazione negli anni è migrata a Roscigno Nuova: il centro storico di Roscigno Vecchia cominciò a svuotarsi attorno al 1902 per via di ordinanze da parte del genio civile (la legge speciale n. 301 del 7 luglio 1902 e la legge n. 445 del 9 luglio 1908).
L’ultima abitante di Roscigno Vecchia, Teodora Lorenzo (nota a tutti come suor Dorina) è morta nel 2000, a 85 anni.
Dorina non aveva voluto saperne di seguire la sorella Concetta Gelsomina e il fratello Mario, e aveva scelto di rimanere nella casa di suo padre, che consisteva in un paio di stanze senza acqua, gas e luce, mentre intorno a lei tutto crollava.
Dorina è stata l’ultima abitante del borgo; negli anni, si è creata una sorta di iconografia attorno a un altro “unico e ultimo abitante”, ossia Giuseppe Spagnuolo, che è il custode del Museo di Arte e Civiltà Contadina: spesso le testate giornalistiche (o i mass media in generale) hanno creato una confusione tra lui e Dorina, additando Spagnuolo come unico e ultimo abitante di Roscigno Vecchia.
Non sarà l’unico e l’ultimo abitante, ma è una figura davvero interessante da conoscere.
Fa da cicerone ai visitatori che si addentrano nei meandri del borgo, racconta loro storie di un’epoca morta e svela quei segreti che solo il vento conosce. Qualcuno diceva che la solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno, ma forse è anche un’estrema forma di libertà.
“Libertà, l’ho vista dormire nei campi coltivali, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”, cantava Fabrizio De André parlando del suonatore Jones. La libertà non è una meta o la fuga da un posto, piuttosto la condizione che porta a far respirare l’anima e alleggerire i pesi della vita, osservandoli e sfiorandoli da una prospettiva nuova. Quasi sopraelevata.
Dalla sua prospettiva sopraelevata e fatta di campi coltivati, terra e antichi fasti, Giuseppe Spagnuolo osserva lo scorrere della modernità, l’affastellarsi di questo ricambio generazionale e di questa nuova società liquida, proiettata verso il culto del virtuale e l’adorazione della tecnologia e della socialità surrogata; osserva, sfiora e scruta, ma non si lascia mai toccare dall’alito del virtuale e del contingente. Impegnato a vivere nella Pompei del ‘900, come qualcuno ha chiamato Roscigno Vecchia, si gode quella libertà che a molti sembrerebbe un salto nell’abisso Lui potrebbe benissimo figurare tra i personaggi dell’Antologia di Spoon River di cui De Andrè scrisse e cantò, perché la sua vita ha il sapore del romanzo o forse i toni sfumati dell’elegia: lui si fa chiamare Libero.
Quante storie avrà Giuseppe da raccontare, affacciato alla sua finestra che abbraccia il passato e il presente? I suoi occhi avranno osservato tanta vita, tante albe e tramonti, con la stessa intensità con cui ora osservano un nulla che ha il sapore speciale della conquista.
Dopo un’esperienza come carpentiere al Nord Italia, decise, in un atto rivoluzionario, che non c’era nulla di più appropriato alla sua anima se non i suoi paesaggi e i suoi luoghi, e ora tesse le trame dell’elegia della sua vita, scrutando gli anni da quella finestra che è sempre spalancata sul mondo, nonostante l’isolamento a cui tutti la ricollegano.
Soltanto un neo, un cruccio, increspa il suo animo: il desiderio di una maggiore valorizzazione della cultura dei beni e una consapevolezza del patrimonio di cui si dispone. Affinché Roscigno Vecchia diventi parte attiva della storia del Cilento interno e non soltanto la guest star di qualche sporadica apparizione cinematografica.
Monica Acito