Un modo diverso di abitare inteso non come diffusione ed espansione edilizia, ma in grado di rivalutare i piccoli borghi.
L’emergenza epidemica ha già dimostrato i limiti della città e la riflessione dell’architetto milanese Stefano Boeri rappresenta lo stimolo anche a livello locale per riflessioni sull’importanza dei paesi.
Condizioni di vita solo apparentemente meno comode ma che appaiono migliori sotto il profilo della vivibilità cozzano coi numeri: 5000 centri a rischio abbandono, e 2300 che vivono lungo la penisola in uno stato di abbandono.
È ancora possibile una collaborazione fertile fra grandi città e piccoli comuni?
Anch’io sono d’accordo con l’architetto Stefano Boeri. Già da tempo, vado affermando, e con una certa convinzione, che per i nostri paesi martoriati dalla globalizzazione e abbandonati dalle giovani generazioni si prospetta l’opportunità di un riscatto.
La grave crisi in atto ha ulteriormente rafforzato questa mia opinione in quanto i nostri piccoli villaggi di campagna sono apparsi subito delle valvole di sfogo irripetibili in un mondo che cerca di farsi spazio.
L’avvento della pandemia di coronavirus ha spostato di nuovo l’interesse verso di loro.
In altri momenti difficili della storia i paesi si sono rivelati preziosi e, con le prospettive che ormai si configurano all’orizzonte, potrebbero assumere di nuovo un ruolo rilevante.
Con i loro spazi rassicuranti, essi promettono di diventare un rifugio privilegiato, una risorsa in grado di traghettarci al meglio anche attraverso le difficoltà che si prospettano. La situazione venutasi a creare ci sta costringendo a riflettere sulle modalità del nostro vivere quotidiano, ne sta mettendo in luce alcune criticità.
Quel vivere “strepitoso”, quel “modello città” in cui ci si poteva permettere piaceri anche effimeri e concedersi ai riti della società di massa, oggi cede il passo a un’altra esigenza: quella di auto-tutelarsi e proteggersi. Anche rintanarsi.
Già un’alta percentuale di abitanti di medie e grandi città sono già si sono già “rintanati”.
Chi dispone di una seconda casa in campagna o in località di mare comincia a pensare di trasferirsi lì; ormai si sono comprese le potenzialità del lavoro da remoto e mai come ora la gente desidera avere un giardino, coltivare l’orto, fare una passeggiata nel bosco…
I paesi e la campagna racchiudono in sé il significato di sicurezza, rappresentano un riparo ancestrale per eccellenza. Vero che ormai non c’è più la “dimensione paese” serena nel suo isolamento, come la si rappresentava una volta. Nel mondo e nel tempo della complessità, come evidente, tutto si mescola, si confonde e si trasforma e i piccoli centri hanno la loro ambivalenza, le loro contraddizioni, una qualità della vita e un tessuto di solidarietà umana cui spesso fanno da contrappeso una certa angustia della mentalità e un forte controllo sociale sulla vita delle persone. Tuttavia la realtà dei piccoli borghi torna di attualità e rappresenta un’alternativa a quella vita “strepitosa” che forse molti non possono più permettersi perché è ormai evidente che si dovranno o vorranno modificare le abitudini. In questi tempi di coronavirus si respira un’atmosfera da fine del mondo, di un certo mondo voluto dall’uomo occidentale negli ultimi due secoli e che ha invaso ormai quasi l’intero pianeta. Sul nostro capo, infatti, come una spada di Damocle, non c’è solo il virus, ma a preoccupare sono anche i timori per l’economia. Le crescite all’infinito su cui essa si basa, e che gli uomini politici continuano stolidamente a cavalcare, esistono in matematica, non in natura. L’attuale modello di sviluppo sembra ormai palesemente in crisi e ogni possibile ripresa della crescita appare estremamente problematica. Anche per questo aspetto, come già accaduto in altri momenti difficili, il “paese” ha dimostrato di possedere le potenzialità per fungere da ammortizzatore ai problemi che potrebbero ancora venire.
Bartolo Scandizzo