In una delle sue pregevoli pubblicazioni dedicate al 25° di fondazione, la galleria d’arte salernitana “Il Catalogo”, fondata da Lelio Schiavone e inaugurata il 16 ottobre 1968, il pittore Mario Carotenuto ricordava che «una volta Gatto, passando per la Costiera, aveva espresso il desiderio di essere sepolto nel cimitero di Maiori, alto sul promontorio, come una villa enorme su uno dei panorami più belli del mondo. Mi pare che disse pure un’altra cosa: avrebbe voluto che sulla sua tomba ci fosse stata una panchina dove due ragazzi si potessero abbracciare e parlare d’amore». Poi nella lirica “Lo Stellato” il poeta richiamò il Castello di Arechi che sovrasta Salerno, annotando: «è il sognare e il credere che un giorno la mia tomba possa essere là, confortata dai vivi, visitata dagli innamorati, nella pietra dell’antica rocca».
Invece, in quel marzo 1976, Alfonso Gatto, poeta, fu sepolto nel Cimitero di Salerno, in uno spazio isolato e un po’ alto, sotto un grande albero. La tomba, pensata dallo scultore Luciano Minguzzi, fu un macigno di pietra informe su cui fu inciso il commiato dell’amico e collega Eugenio Montale: «Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesie furono un’unica testimonianza d’amore». Accanto non fu posta e non vi è la panchina per ragazzi innamorati, ma un prato verde.
Sono trascorsi 45 anni da quel tragico 8 marzo in cui l’auto su cui Gatto viaggiava sbandò: un incidente che costò la vita al poeta salernitano in quel di Orbetello.
E ritorna il pensiero a quella voce di Salerno, “rima d’eterno”, ritornano i ricordi che fanno ressa alle porte del cuore e della mente. Luoghi dell’anima, della sua città che il poeta portava sempre dentro di sé. A chiusura de “La spiaggia dei poveri”, quella di Santa Teresa, dei salernitani, da sempre e non più ora, Gatto scriveva: «La morte è un vento, un mare! / Terra non è, non è terra, non è sepoltura. / Il nostro silenzio avrà una voce, / di là, di là, e non son cupole, non sono chiese. / Ma bambini, bambini che gridano». Ecco la speranza del futuro poetico: loro, i bambini, sono destinatari de “Il sigaro di fuoco” – doveva essere il 1945 – con il quale, però, il poeta parlava anche agli adulti con straordinaria serietà. In quegli anni si parlava di libertà, ci si scontrava con la ricerca del tozzo di pane e si covava dentro il bisogno di vita, di essere uomini ancora. «Ho preso tutti i bambini per mano / ho preso tutti i colori e i pennelli. / Tingiamo a nuovo case e ruscelli, / le porte, i chioschi, la barba del sultano».
Una pulizia incantata, intensa! che non si manifesta solo nei versi per ragazzi, ma anche in quelle sue eccitate corrispondenze da inviato al Giro d’Italia, nato, come lui, nel 1909: «abbiamo fatto le stesse guerre, abbiamo avuto le stesse speranze e le stesse paure, siamo ancora in buona salute, a parte qualche acciacco».
Aveva lasciato Salerno da tempo quando seguiva il Giro insieme a Vasco Pratolini, e per molto tempo Gatto non ritornò se non quelle rare volte che faceva visita alla madre e alle sorelle.
Poi vi fu il giorno in cui ritornò per ritrovare la sua città. Fu una sera del 1959, allorquando nella sala del Circolo Democratico lesse le sue poesie ad un folto pubblico di salernitani: un incontro voluto dall’allora sindaco Alfonso Menna. Dopo quella sera, si intensificarono le frequentazioni del poeta con Salerno, anche per quel profondo sodalizio di uomini colti che si ritrovavano in quella che giustamente viene ora citato come “una galleria tra arte e società”, “Il Catalogo” di Lelio Schiavone, “uomo sensibilmente accorato dai suoi scrupoli” scriveva Gatto nella presentazione del volume “Il Catalogo è questo”. Poi aggiungeva «Tutto mio è il nome della galleria: il Catalogo. Miei sono questi scritti con i quali mostra dopo mostra ho accompagnato i pittori amici nella mia città, e tra pareti domestiche, in una casa che accoglie le confidenze e le pene tuttavia felici alle quali m’accompagno».
Parole che vengono da lontano, dal profondo di un animo legato da profondo affetto a quel piccolo spazio dalle bianche pareti sulle quali Gatto aveva appeso anche i suoi quadri. «Perché dipingo, non so rispondere, ma almeno posso tentare», aveva scritto nel 1970 presentando una sua mostra di pittura. «Nel sangue ho sempre avuto questa smania del plasticare e del dipingere… Occorre salvare l’anima… non so come: ma l’anima, per un soffio almeno, riesco a prenderla per i capelli nel momento in cui chiedo al colore di dirmi e di dire qualcosa, di non lasciarmi avvilito con tutto quello che non so fare».
E ritorna alla mente, sintesi di intensità, la frase che Montale volle incidere sulla pietra sepolcrale. Scriveva Gatto: «La mia resta, e continua a restare, anche da pittore, una situazione di “lirico” che lavora nella fenomenologia della parola, pittorica e poetica che sia… Comunque (il lettore – ndr) sa che non l’inganno, che ho cercato anche col colore di dire tutto quello che non so di me e tuttavia un presagio, un barlume, che vale più di una notizia».
Poeta, giornalista, pittore, Gatto era però soprattutto uomo sincero, sanguigno, appassionato come gli uomini del sud che sentono dentro la forza del mare in tempesta. Era il 1970, un numero del settimanale “Epoca” riportava un articolo di Gatto nel quale traspariva tutta la forza dell’amore che il poeta aveva per questa sua terra: a chi stava lontano offriva molti spazi di meditazione. E ritornano alla mente i versi scritti per “una terra dipinta”, acquerelli che si stemperavano nelle parole, e viceversa, a corredo de «La strada che da Vietri a Capodorso / a Minori, ad Amalfi, sale e scende / verso il mare di Conca e di Furore / è strada di montagna: vi si arrende / la luce che nel trarla dosso a dosso / ai suoi spicchi costrutti trova il fiore / del lastrico deserto, la ginestra». Versi nati nel corso degli anni a ricordare volti, luoghi, “case incise nella pietra”: «Queste mie poesie più di me diranno come io sono la mia terra, come lo sarò sempre di lei fiore e frutto, di lei seme e sepoltura, come è giusto che ogni uomo sia».
Amore, amicizia, vita, morte, grandi temi che «in un immaginario tempo della notte» vengono meditati dal poeta vagante nell’intimità, raccolti in “Le ore piccole”. Nel ricordo dell’amico perduto, Giorgio Amendola nel 1976 scriveva: «Lo vedo ancora allontanarsi nelle serate umide, un po’ curvo, col bavero rialzato». Definito “amico dei tempi lunghi” con Gatto si poteva sempre riprendere un discorso come se fosse stato appena interrotto, «ed ogni volta – ricordava Amendola – potevamo, con immediata facilità, scambiarci le nostre impressioni, comunicarci i nostri sentimenti, ritrovando senza alcun imbarazzo il filo di una amicizia che si dipanava solido nel tempo».
Certamente impossibile è il voler tracciare un profilo di quest’uomo del sud, “molto più grande della sua leggenda” come ebbe a scrivere Vasco Pratolini, con il quale Gatto aveva condiviso le gioie e i sacrifici di “Campo di Marte”, rivista quindicinale di azione letteraria e artistica. Ma di sicuro tracciano un profilo eterno le testimonianze degli amici Amendola, Bo, Maccari, Pratolini, Ricci che furono raccolte da “Il Catalogo” e pubblicate nel volume “Per Gatto” all’indomani della tragica scomparsa del poeta. Appena due giorni prima dell’incidente, per una presentazione di una collettiva negli amati spazi salernitani di Via De Luca, Gatto aveva scritto: «Ormai l’aria ha il salino della primavera, le gemme sono sui rami, e già si pensa che la morte è rimandata a un altro autunno, a un altro inverno. Ci tocca vivere». Destino beffardo!
Restano a sfidare il tempo e l’oblio degli uomini le parole del poeta, i suoi versi, le sue accorate testimonianze per la sua città, la sua terra salernitana. Riaffiora alla mente: «Mi piace alla fine, dirmi e dirvi che vivo ancora, che ogni segno, ogni parola detta, scritta o dipinta, affidata all’amore altrui, mi dà vita».
Scrive Mariano Ragusa: «Accarezzando con lo sguardo le fotografie dei 50 anni del suo Catalogo, Lelio Schiavone sussurra “Se solo questa città avesse memoria…”. Una cosa che difetta a questa città!
Vito Pinto