Alla fine del mese di maggio 1880 Richard Wagner scrisse al suo amico Re Luigi II di Baviera una lettera in cui, tra l’altro, diceva: «Ci siamo recati in questi giorni ad Amalfi sul Golfo di Salerno, forse il punto più bello d’Italia. Di là visitammo Ravello, una cittadina adesso piena di ruderi, situata in montagna, ma che ha conservato reliquie di costruzioni magnifiche del tempo dell’occupazione degli Arabi. Qui abbiamo trovato motivi splendidi per il Klingsor Zaubergarten, i quali subito furono abbozzati per la rappresentazione del secondo atto del “Parsifal”».
Lo stesso giorno, fermandosi alla locanda Palumbo (oggi Hotel Palumbo) per la colazione, pieno di gioia, nell’albo dei turisti, appuntò: «Il magico giardino di Klingsor è trovato. – 26 maggio 1880».
Da tempo Wagner pensava a quest’opera mistica, ultima per produzione, che diventerà, per certi aspetti, il suo testamento, la conclusione di un tormentato cammino intimo snodatosi negli anni della sua esistenza, lungo i percorsi musicali di opere eccelse, tutte con un proprio preciso itinerario, ma tutte, indiscutibilmente, convergenti verso il grande mistero della redenzione dell’uomo e del mondo, rappresentato nel “Parsifal”.
Il 25 gennaio 1877 la moglie Cosima (figlia di Franz Liszt) annotò nel suo diario: «Abbiamo parlato a lungo della morte di Beethoven… Poi egli mi chiama: “c’è una cosa che non ti voglio dire”. “Oh, ti prego, dimmela”. “Comincio il Parsifal e non lo lascerò finché non è finito”. Al che io rido forte per la gioia». Una gioia più che ammissibile, visto che a questa opera Wagner pensava da ben 38 anni.
Venne informato re Luigi, che si mostrò interessato e ansioso di vedere il lavoro realizzato. Cosima diligente, giorno dopo giorno, riempiva le pagine del suo diario: «(5 dicembre 1877) Richard mi dice di aver arrangiato un bel mélange per i cavalieri che raccolgono il cigno morto: tema di Amfortas, tema di Herzeleide e il motivo del cigno dal Lohengrin».
Poi il secondo atto, quello del magico giardino di Klingsor, il musicista ha già un tema in riserva, inventato e mai eseguito per la Marcia del Centenario dell’Indipendenza Americana. Diventerà l’invocazione delle fanciulle-fiore: «Komm! Holder Knabe!» (Vieni! Caro fanciullo!). La scena della seduzione delle fanciulle impegnò non poco il compositore, ma quando tutto si completò scrisse all’amico re Luigi: «Mi sono calato nel mio purgatorio e ne sono emerso vittorioso. So che anche questo lavoro è riuscito degno di noi».
Nel giorno di festa del 25 aprile 1879, ancora Cosima annotò: «Quando torno a casa verso mezzogiorno, Richard mi accoglie con la notizia che il Parsifal è finito». Al re Luigi la notizia arrivò in Baviera con un telegramma in versi:
«Tre maggio! Dolce maggio!
A te sia prodigata la mia lode!
Il regno dell’inverno è ormai trascorso,
e il Parsifal compiuto».
Manca però l’orchestrazione; il compositore aveva già fisse, nella mente e nel cuore, le linee essenziali. Cosima appuntò: «(27 aprile 1879) L’orchestrazione dovrà essere completamente diversa da quella dell’Anello, con un tessuto di tutt’altro genere; sarà come strati di nuvole che si formano e si sciolgono nuovamente».
Per giungere ad una tale perfezione d’armonia, perché l’opera sia piena del misticismo e della malia che devono fondersi, scindersi, ricomporsi e sublimarsi, coinvolgendo l’anima e la mente, è necessaria qualche pausa di riflessione, la ricerca di luoghi immaginifici, di suggestioni profonde, capaci di rispondere alle esigenze compositive del maestro.
Così Wagner venne in Italia, a Napoli, nel gennaio 1880, con la moglie Cosima e il figlio Siegfried, prendendo dimora a Villa d’Agri a Posillipo. Da qui si spostarono ad Amalfi, nell’800 luogo dell’immaginario per tanti artisti europei, prendendo alloggio all’Hotel Luna. Nel suo diario Cosima scrisse: «Martedì 25 (1880). Divino viaggio fino ad Amalfi, visita al duomo, che mette Richard un po’ di malumore, però la serata sulla terrazza dell’Hôtel des Capucins gli riporta il suo buonumore, che del resto egli si era rifatto burlandosi della mia curiosità per Sant’Andrea “visto da vicino”».
L’anno precedente nello stesso Hotel Luna aveva soggiornato lo scrittore norvegese Henrik Ibsen, creando il suo “Casa di bambola”, dramma di una donna coraggiosa in una società maschilista.
A Ravello Wagner si recò sia per una escursione turistica, sia per l’attrazione che il paese e Villa Rufolo suscitavano sui viaggiatori. Alcune leggende narravano, infatti, di tesori nascosti e mai recuperati dei patrizi ravellesi partiti per le Crociate. Inoltre qualche anno prima si era parlato di un misterioso omicidio di un fanciullo per mano di tre esaltati, che volevano procurare sangue vergine a uno stregone.
Del resto il paese costiera non era nuovo all’attenzione dei grandi personaggi, né Villa Rufolo era ignorata: Giovanni Boccaccio aveva trovato in questi ambienti lo sfondo malioso e donatore di sogni infiniti, ove si diedero convegno fanciulle e giovani per raccontarsi una delle cento novelle del “Decamerone”. Ecco cosa scrisse Boccaccio: «Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia: nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tralle quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo». Sembrava proprio che ce ne fosse abbastanza per suscitare una profonda curiosità nell’animo del compositore tedesco.
A Ravello Wagner salì a dorso di un mulo, con la moglie Cosima e il pittore russo Paolo de Joukowsky, fedele e sottomesso amico, al quale il maestro chiese di stendere degli schizzi del giardino e della Villa Rufolo.
Qualche anno prima, 1861, nel suo descrivere l’Italia, Ferdinand Gregorovius così aveva raccontato l’ascesa a Ravello: «Vi si sale da Atrani percorrendo una rapida e faticosa strada, ma romantica, attraversando gallerie coperte e camminando fra vigneti, castagni e boschi di carrube. A misura che si sale, la vista del mare si fa più bella. Dalla cima delle nere rupi, coronate di torri, si getta lo sguardo sull’azzurro delle onde che si direbbero sgorgare dalla gola di Pontone». E più avanti riferisce: «Il palazzo Ruffoli in Ravello è una vera miniera di architettura moresca di quei tempi, e di queste contrade. Esso trovasi in un giardino, ed appartiene da tre anni all’inglese sir Nevil Reed, il quale lo ha fatto per primo sgombrare dalle macerie. E’ addirittura un piccolo Alhambra, uno stupendo edificio a tre piani, che conta più di trecento stanze sostenute tutte da colonne moresche».
Quando giunse a Ravello, Wagner trovò la torre d’ingresso e la villa appena risistemate da Sir Francis Nevil Reed, che l’aveva acquistata nel 1851, sotto la direzione del Comm. Michele Ruggiero, divenuto, negli anni seguenti, direttore degli scavi di Pompei.
Custode della Villa era don Luigi Cicalese: le cronache lo tramandano come uomo simpaticissimo, «dalla fluente barba e dal sorriso sempre fresco sul volto» e che trascorreva le sue giornate nella cura paziente del verde e degli angoli fioriti di quella dimora. Com’era suo costume, don Luigi accolse i Wagner con gentilezza, accompagnando il maestro nella visita alla villa. Un viale a verde, che porta verso il Palazzo, ha sulla sinistra una scala, che permette l’accesso ad una piazzola ricca di aiuole ed alberi annosi. Poco più avanti lo sguardo si affaccia su un infinito eterno… il fiato, d’improvviso, fa fatica nel suo percorso: «tutte vedute che bisogna ammirare e tacere, anziché provarsi a farne la descrizione», aveva scritto Gregorovius. Fiori multicolori, fogliami esotici, pini, cipressi, dracene e altre pregiate specie floreali, fasciate da una misteriosa armonia di luci ed ombre dimidiate, immergono il visitatore in una pace profonda, rotta solo dai suoni della natura, e trasportano l’animo in “magici giardini” ove, dalle corolle dei fiori, è facile che escano ragazze ammaliatrici. L’immaginifico scenario, affacciato a contrasto d’azzurro del mare etrusco, oggi come allora colpisce il visitatore, facendolo cadere in atti d’amore che diventano “peccato”: permane il bacio ammaliatore della perfida Kundry.
Uno scenario ed un’atmosfera che colpirono, quel 26 maggio 1880, Richard Wagner, immerso con l’anima e la mente nel processo purificatore del suo “Parsifal”. In quel momento, in quel punto d’ammirazione panoramica il maestro capì di essere un minuscolo abitatore dello spazio e del tempo nella cui immensità ed eternità era facile perdersi, ma anche annullarsi, per redimersi e rinascere più grandi di prima: e fu, per istinto di genio, la redenzione. Al termine di quel lungo viaggio musicale e di ricerca intima durata una intera vita, Wagner alla “Saga dell’Edda” per “l’Anello del Nibelungo” sostituisce Il Vangelo, all’incendio del Walhalla, come finale, preferisce l’esposizione del Sacro Calice nel Castello del Regno di Monsalvato, Klingsor, mago e nemico dei Cavalieri del Graal, viene sconfitto dal puro Parsifal.
A sera, nell’immancabile diario, Cosima riportò: «Mercoledì 26 (maggio 1880). Colazione serena e cavalcata su a Ravello, bella al di là di ogni descrizione. A Ravello trovato il giardino di Klingsor. Colazione a villa…(Palumbo?), poi caffè dall’amministratore del Sig. Reed, la cui moglie, una svizzera, ci ricorda Vreneli, ed è molto piacevole nella sua serietà. Cavalcata via Santa Chiara al piccolo padiglione (il panorama da Santa Chiara per me il più bello). Fermata con cantata di Peppino. Discesa contemplativa e bella serata sulla terrazza con conversazioni sulle stelle che brillano sopra di noi, e la luna, che, come si afferma, ci guarda “con le guance gonfie e la faccia istupidita”».
Per tutta la vita il maestro, nella musica e nei saggi letterari, aveva sognato il bene, il giusto, l’amore, l’uguaglianza, senza mai raggiungerli. Alla fine, come il Dottor Faust, ripercorre le tappe della sua esistenza, con tutti i problemi vissuti, e le rinnova nella musica. Parsifal è, in fondo, il simbolo dell’uomo puro (Parsi) e folle (Fal), capace di vincere il male e giungere alla redenzione. Riprende «i colori dai vecchi barattoli – annotò Cosima – e li stempera nella sublime lentezza di una meditazione intima».
Ritornano, nelle magie di questa sua ultima opera, il “Rienzi”, il “Lohengrin”, “I Maestri Cantori di Norimberga”, “l’Olandese Volante”; tutto torna come un’eco mirabile di cose già udite, di sensazioni ed emozioni già provate, vissute, ma sublimate dal ricordo. Turbinio di emozioni che non è certo difficile assaporare in quella Villa di suggestioni, dove il profumo delle zagare e la visione dell’infinito portano il visitatore in dimensioni oltre il quotidiano vissuto.
Il venerdì 27 maggio 1880 è la festa del Corpus Domini e ad Amalfi si celebra la solenne processione con l’ostensorio. La protestante Cosima annota: «Molto rumore e chiasso, confusione cannibalica da fare inorridire colui che nutre sentimenti umani e religiosi. Siegfried pieno di brama per la festa, sei volte nel duomo, qua e là! Gita in due barche alla grotta davvero magnifica, così come il ritorno alla bella Vietri, e poi il viaggio in ferrovia, durante il quale Richard diventa sempre più scatenato, allegro. Napoli esercita all’arrivo tutto il suo potentissimo, imperioso fascino. Richard nota: che tutto il resto, rispetto a Napoli, appare solo come un idillio, e uno ha l’impressione, qui, di essere al centro del mondo (lui ha detto: capitale). A sera, come per festeggiare il nostro ritorno, il Vesuvio sprizza scintille in continuazione, tanto che si pensa a una prossima eruzione».
Erano trascorsi due giorni dal compimento del Parsifal e Cosima, puntuale, annotò nel suo fedele, inseparabile diario: «Forse la cosa più bella di quest’opera è la sua divina semplicità, paragonabile al Vangelo – il puro folle che regge ogni cosa… Come lo stesso Richard dice: E’ tutto sincero!».
Vito Pinto