Il mio giornale chiude? Viva il mio giornale! Parliamo del quotidiano “La Città”. Da quando mi approccio professionalmente nel mondo del giornalismo ho sempre affiancato alla militanza nelle piccole testate locali quella in un quotidiano accreditato. È stata la mia palestra di formazione. Da un paio di settimane il mio ultimo domicilio professionale, “La Città”, ha chiuso. “La Città” non è più nelle edicole del salernitano e il suo sito Internet è stato fermato. La società editrice risulta messa in liquidazione volontaria. Cosa è avvenuto? Non ho elementi, sono l’ultimo dei collaboratori locali, per poter aggiungere altre cose oltre a quelle già circolati sui media e sui social. In breve: al culmine di una vertenza della redazione, i dipendenti fissi, culminata in dieci giorni di sciopero, i giornalisti hanno trovato la redazione chiusa e non hanno potuto riprendere il loro lavoro e permettere al giornale di uscire. Anzi, qualche ora dopo si riesce a sapere che la società editrice ha portato “i libri” in Tribunale cessa la sua attività. Una ridda di ipotesi, una peggiore dell’altra, vengono fatte. Se i redattori, ormai ex, parlano e scrivono, i vertici editoriali, anche loro ex, si chiudono in un riserbo assoluto.
Un po’ di storia
Giusto qualche riga di storia. Il quotidiano nasce a metà degli anni Novanta, quando Paravia industriale degli ascensori, fornisce polmone finanziario all’intuizione di Claudio Signorile su alcuni nuovi quotidiani meridionali che mettono in comune alcuni contenuti. Dura poco. Il tutto viene ceduto a Caracciolo, uno dei proprietari del gruppo espresso, cognato di Agnelli, che sviluppa questa catena di quotidiani locali in tutta Italia. Le forme organizzative e “l’ideologia” saranno quelle di Mario Lenzi, giornalista livornese e comunista mai pentito, che teorizza che il “tutto locale” debba essere prodotto sul territorio da giornalisti “paesani”, possibilmente il giornale deve parlare in dialetto è un suo modo di dire, unito ai contenuti nazionali realizzato da una redazione centrale. La formula salernitana, elaborata da Andrea Manzi, non solo non è modificata ma è portata ad esempio in tutta Italia. Lo spazio di mercato conquistato è subito notevole e mette in discussione la leadership di un “Mattino” presente da oltre un secolo e in almeno tre generazioni. “Il Mattino” ha il sapore della tradizione, “la città” è l’innovazione. C’è un impatto anche sulla cultura giornalistica, nasce una nuova generazione di professionisti capaci di scatenarsi sulla notizia senza avere più le “buone maniere” e il rispetto del passato. Non sono più i giornali fatti alla buona del centro destra salernitano attenti più alla battaglia politica ma un foglio che ha le notizie, lo sport e la cultura.
Un giornale sempre più letto
I lettori – lo dicevo prima – lo premiano. Anzi ne nascono di nuovi che cominciano a rianimare le anemiche edicole. Di Canto, il principale distributore editoriale della nostra provincia, lo capisce e sceglie di entrare nella proprietà della “Città” in tempi non sospetti. La situazione è troppo bella per essere vera e reggere. La prima crisi si ha quando il “gruppo Espresso” va all’attacco del modello editoriale che ogni giorno l’allora direttore Andrea Manzi, nato e cresciuto professionalmente al Mattino e figlio di una sua storica firma, porta avanti. Vogliono un giornalismo più rampante, forse adatto ad altre realtà, invece del giornalismo moderato e colto di Manzi. Il fiato sul collo degli uomini del principe Caracciolo si percepisce con l’accettazione di modelli di “giornalismo pop” nelle pagine locali periferiche mentre il “centro” del giornale è fortemente influenzato dal direttore di Mercato San Severino. Il mix ne premia anche la diffusione. Manzi verrà progressivamente logorato e va via. Dal gruppo centrale mandano nuovi direttori: De Luca, Vicinanza, D’Antona e Tamburini. Il giornale è più autonomo dai poteri politici e giudiziari.
Il potere comincia a diffidarne
Piace ai lettori ma non a coloro che in questa provincia comandano. Dal punto di vista dei conti il gruppo Espresso è una garanzia per la redazione ei collaboratori esterni che sono trattati più o meno come i loro colleghi del resto d’Italia. L’inevitabile deficit è “spalmato” e diluito sul resto dei giornali di proprietà. De Benedetti, diventato il dominus dell’impero editoriale di Caracciolo alla sua morte, vara una maxi ristrutturazione che vede Repubblica, La stampa e il Secolo XIX unificati di fatto alle atre testate locali di proprietà. Resta questo piccolo quotidiano salernitano. I manager decidono di venderlo ma prima ne “limano” i costi di produzione, con i giornalisti obbligati a decimarsi, vanno via la metà, e quelli che restano vengono assoggettati a un “contratto di solidarietà” (meno ore di lavoro e meno soldi in busta paga) e i collaboratori esterni non supereranno i 150 euro mensili di competenze ma di fronte a un impegno in articoli mai chiarito. Tutti accettano pur di permettere al giornale di restare sul mercato. Torna anche Andrea Manzi, l’originario fondatore, alla direzione. Gli editori diventano due. C’è sempre Di Canto e gli affianca Lombardi, interessi nella sanità privata tra Napoli e Salerno. Manzi resiste pochi mesi, e alla fine del 2017, con il raggiungimento del pensionamento, va via. Si cambia di nuovo e arriva Antonio Manzo, da poco pensionato dal “Mattino” e alla ricerca di una chance professionale all’altezza della sua fama. La redazione che lo aspetta al varco è sempre più demotivata e, soprattutto, non vede la fine di quelle “lacrime e sangue” invocate per far quadrare i conti. Vengono anche varate nuove iniziative quali un supplemento di enogastronomia e una nuova pagina nell’Alto Sele, sponsorizzate dalla Bcc di Aquara. Con dei service esterni vengono confezionate le pagine sportive. La redazione più volte dichiara scioperi. Poche settimane fa l’epilogo: al termine di un lungo sciopero, dieci giorni, i redattori al ritorno al lavoro trovano le porte della redazione sbarrate e l’annuncio che i libri societari sono stati portati in tribunale, il sito internet chiuso, ed è stata avviata la procedura di liquidazione. Che cosa accadrà ora? Qualche illazione arriva anche a me, periferico collaboratore, ma è probabile che sarà già smentita quando questo numero di “Unico” sarà stampato. Il mio augurio è che questa palestra di democrazia venga preservata e che non venga uniformata ad altri quotidiani locali in circolazione. Io? Io speriamo che me la cavo.