La dicitura “pianta da rinnovo” indica che un coltivo ha proprietà e caratteristiche rigeneranti per il terreno in cui è messo a semina. Si tratta di colture miglioratrici che a fine ciclo lasciano il terreno con una struttura beneficiata, soprattutto a causa delle lavorazioni che richiedono. Lavorazioni profonde, che scavano la terra anche oltre i 50 cm, e favoriscono l’accumulo delle acque piovane chiamate a dissetarla.
Il cece (Cicer arietinum), pianta erbacea delle Fabaceae, il cui seme è tanto diffuso nelle linee guida della nostra alimentazione, è anche all’origine del rinnovamento di un piccolo comune cilentano che da questa leguminosa prende il suo nome: Cicerale, la terra quae cicera alit, terra che nutre i ceci, può, infatti, per questo suo prodotto d’eccellenza, vantare la certificazione di presidio Slow Food, oltre ad essere, nella provincia di Salerno, uno tra i borghi la cui memoria storica e il cui presente possono dirsi entrambi radicati alla medesima millenaria tradizione agricola.
Il cece di Cicerale, introdotto probabilmente da monaci basiliani ivi stanziatisi, proviene dall’Asia occidentale, dove rappresenta una delle principali colture locali, ma trova un territorio d’elezione anche in queste aree collinari del basso Cilento, presso cui si abbarbicarono, così come fa la pianta, sin dal Medioevo, le popolazioni delle aree costiere messe in fuga dalle incursioni dei Saraceni.
Tornare a casa dopo una giornata di lavoro nei campi è tornare alla religiosità di un focolare acceso, presso cui i Lari siedono in attesa che li si ascolti e a loro si volgano le dovute offerte per il raccolto a venire. Tornare a casa dopo una giornata di fatica e trovarla in fiamme perché si compia un mito fondativo e nasca una nuova città, là dove, appena al mattino si erano messi a semina dei ceci.
Si immagina che, nella realtà dei fatti, l’evento non fu tanto poetico, ma è così che una pianta assurse a simbolo di una neonata comunità e trovò il suo posto nella simbologia in cui essa si identificava.
Presente già nello stemma dell’Universitas Civium di Federico II allorquando il feudalesimo dei Normanni, degradando, mostrò il suo volto arcigno e fu perciò necessario istituire associazioni dei cittadini che gestissero la cosa pubblica nei limiti e nell’osservanza delle leggi, la pianta di cece è parte del gentilizio comunale di Cicerale ancora oggi, intrecciata ad una graminacea.
Se ne accennava, quanto è all’origine del primo insediamento agro ciceralese, ultimo a comparire dopo i villaggi di Luculo, Monte e Corbella, che furono nuclei primordiali di stabilità sul territorio, è storia amara in parte nota, che narra dei tragici eventi abbattutisi nell’anno 882 sulla vicina Agropoli. Conquistata dagli Arabi, giunti in Campania per volere del vescovo di Napoli Attanasio, il quale ne aveva richiesto l’intervento in difesa della città di Gaeta allora in lotta con Capua, Agropoli ne sperimentò ben presto la furia devastatrice. Molti cittadini furono uccisi, altri fatti prigionieri e imbarcati a viva forza sulle navi saracene e trasportati in Africa come schiavi. Chi riuscì a fuggire lo fece trovando riparo nell’entroterra, in luoghi alti e nascosti dalla fitta boscaglia, dove nacquero piccoli villaggi i cui abitanti, pur nelle stratificazioni dei secoli e dal 1742, anno di pubblicazione del primo catasto onciario, ricavavano il proprio reddito per la quasi totalità dall’agricoltura.
Cicerale viveva e vive di un’economia prettamente rurale, che ne contraddistingue l’appartenenza all’insieme dei paesi del Cilento a rischio spopolamento. La stessa produzione dei ceci negli ultimi anni è andata infatti calando, la superficie dedicata si è ridotta ad una decina di ettari soprattutto per la durezza dei cicli di produzione, che non possono scendere a compromessi con i dettami di una società che chiede sempre maggiore rapidità di esiti.
Come per la vita stessa di questi piccoli borghi, la cui caratteristica vocazione è in parte all’origine della loro attrattività, anche la coltivazione dei ceci è un processo lento e ritualistico, che richiede discrezione e rispetto dei ritmi della natura. I terreni accidentati e la presenza sulla pianta di baccelli molto vicini al suolo coltivato impediscono ad esempio l’utilizzo di trebbiatrici, richiedendo che il lavoro venga svolto per lo più a mano. Per coltivarli si seguono i criteri dell’agricoltura biologica, non si usano prodotti chimici e non si fa irrigazione. La raccolta si ha alla fine di luglio ed è un procedimento molto faticoso: quando il seme è maturo le piante vengono estirpate in campo e lasciate in loco ad asciugare, fino a che non sono abbastanza secche per la trebbiatura. Ad essicazione avvenuta, le piante vengono poggiate su sacchi di iuta, coperte e battute con grossi bastoni di legno oppure, nei casi fortunati, trebbiate con una piccola trebbiatrice posta a ridosso del campo e alimentata a mano.
La varietà ciceralese, di qualità superiore alla norma poiché formatasi dall’incrocio fra la pianta asiatica e una similare di germinazione spontanea lungo le coste mediterranee, è più piccola rispetto alla specie comune. I semi sono rotondi e dal colore leggermente più dorato. Il sapore è intenso, nonostante la notevole porosità che ne aumenta di molto le dimensioni all’atto della reidratazione.
La minaccia dell’agricoltura industriale, dinanzi al cui ghigno molte altre piccole produzioni agricole d’eccellenza ormai si trovano, lo ha ulteriormente impreziosito di senso e dal 1999 ne ha incentivato la promozione attraverso eventi e manifestazioni gastronomiche a chiara finalità tutelare. È il caso di “Cilento Delizie”, la fiera nazionale dei prodotti biologici che ogni anno, nel mese di agosto, nel seicentesco borgo di Montecicerale, promuove e ricorda le tipicità del Cilento e della Campania, messe in mostra ed in vendita dalle botteghe artigianali di riferimento. Un pro-memoria storico, ed anche un rafforzarsi dell’identità di un luogo che porta da sempre il suo destino scritto nel nome.