di Giuseppe Liuccio Il latino mi ha insegnato il primato della parola, anche perché la parola è per me, come, d’altronde, per tutti, strumento di vita e, nella fattispecie, anche strumento specifico di lavoro, perché faccio da sempre il “comunicatore”, prima come docente di latino e greco e, successivamente, come giornalista. E vado con la memoria all’infanzia lontana ed ai primi insegnamenti del Vangelo, che è stato, è, e resta un insostituibile “libro di vita”, dal quale appresi come tanti, d’altronde, il principio etico “et verbum caro factum est” (e la parola si fece carne), che interiorizzai e sacralizzai come principio di conoscenza e di etica comportamentale, nella consapevolezza del rapporto indissolubile tra parola e carnalità nell’unità inscindibile di mente (logos), anima, cuore e sangue (carne) nella vita dell’uomo. Ho sottomano un bel saggio di Ivano Dionigi (Il presente non basta), che si configura come una lezione /elogio del latino. La parola, il verbum, è “materia prima” come “la pietra, il legno, il ferro”… è come un “sovrano potente”, che, seppure minuta ed invisibile, compie i più grandi miracoli. “La parola può spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione. Nulla è impossibile alla parola. Pensiamo per un attimo al nostro termine “competere” che nella sua origine etimologica “cum-petere” non ha nulla di sgomitante e muscolare, ma molto più semplicemente significa andare insieme nella stessa direzione, correre insieme verso la stessa meta per conseguire gli stessi obiettivi. Lo stesso dicasi delle parole “oriente” ed “occidente”, che, etimologicamente significano, l’una “la realtà che inizia” (oritur) e, l’altra, “la realtà che finisce” (occidit). E noi occidentali oggi rischiamo di scontare tutta la precarietà della nostra identità linguistica, come sottolinea acutamente Ivano Dionigi, nel momento in cui non distinguiamo i vagiti di “chi nasce” dai rantoli di “chi muore”. Il pericolo già grave nel linguaggio quotidiano diventa gravissimo ed imperdonabile oltre che devastante, se analizziamo quello della politica. Un esempio per tutti: in ogni assemblea elettiva si crea sempre una maggioranza ed una minoranza, come è logico che sia e come è nello spirito della democrazia rappresentativa, che si basa, o dovrebbe basarsi (il condizionale è d’obbligo) sul dibattito dialogo tra una maggioranza che fa proposte sulla progettualità che l’assemblea discute ed approva ed una minoranza che fa proposte alternative di tutto o parte del progetto e si pone con motivazioni precise in competizione di idee, di progetti e di metodi per, eventualmente, sostituire la maggioranza ribaltando il rapporto di forze nelle competizioni elettorali con la decisione del popolo sovrano. Oggi la minoranza preferisce chiamarsi opposizione etimologicamente ob = contro, ponere = porre (ostacolare, contrastare, impedire) identifica dosi e fossilizzandosi in un giudizio negativo aprioristico, escludendo la fecondità del dialogo costruttivo. Solo la cultura può educare al dialogo condannando il monologo. E la cultura è un percorso di formazione/ educazione lungo e motivato che si fa a scuola, nell’accezione più completa del termine. Scuola deriva dal termine greco scholé, che indicava il tempo che il cittadino riservava a se stesso, alla propria formazione che i greci chiamavano paideia, che ritenevano non specialistica e monoculturale, ma completa ed integrale, antesignana dei nostri saperi interdisciplinari e trasversali. Ma oggi, anche se siamo in parte consapevoli che la scuola intesa come scholè “ha il compito di insegnare come sostiene lucidamente Ivano Dioinigi, ciò che non si apprende né dalla famiglia né dalla società né dalle istituzioni, deve fare i conti con la realtà aggressiva e incontrovertibile di un mondo extra scolastico parallelo, di un’altra educazione, di un altro apprendimento, con coloro che parlano il linguaggio invasivo del computer, di internet, dei video giochi, con i cosiddetti ‘nativi digitali’: di Facebook, twitter ecc. ecc..”. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti, – conclude il prof.Dionigi -: il passaggio dall’elettronica al digitale ha acuito la signoria del presente allargando lo spazio e contraendo il tempo, e ha segnato un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io. In un pese civile e colto centrale è la figura del maestro magister = colui che ne sa di più e vale di più (magis) e che si mette in relazione con gli altri (-ter); in opposizione a minister (colui che sa e vale di meno). Sono, questi, termini del linguaggio religioso: magister era il celebrante principale, minister era ii celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Noi oggi abbiamo sostituito il rispetto per i Maestri con l’ossequio per i Ministri. Di qui la necessità di una scuola che privilegi i verbi aumentare e accrescere (et et) e non diminuire e sottrarre (aut aut). Parte da questo principio basilare una seria riforma della scuola. E la conclusione è quella stessa con cui si chiude l’interessante trattato del Prof Ivano Dionigi, IL PRESENTE NON BASTA, di cui consigliamo la lettura. “Molti privilegiano la solitudine, che spesso si fa arroganza, del monologo dell’io alla feconda socialità del dialogo del noi. La scuola è il luogo dove i giovani e gli adulti insieme, con le conoscenze e le esperienze, affrontano e condividono la serietà, la severità, la bellezza tremenda e stupenda di quella cosa che chiamiamo vita”. E se ne rendano conto, aggiungo io, i politici dei miei due territori di riferimento, Cilento e Costa di Amalfi, molti dei quali amano la solitudine e l’arroganza del monologo infecondo dell’io alla socialità del dialogo del noi.
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