Sessanta fotografie, in rigoroso bianconero, disposte sulle candide pareti del Tempio di Pomona di Salerno come fantasiose note musicali su un pentagramma a comporre una melodia di immagini che, interagendo con la sacralità del luogo e la sua architettura storica – antiche colonne paestane fanno da naturale spartiacque -, rimandano ad una partitura sonora che si rende ancor più tangibile nella correlazione con il visitatore-protagonista, sì da realizzare quella “Polyphonia” che l’autore, Pino Musi, ha dato come titolo alla mostra.
Sono immagini di uguale dimensione con le quali Musi «esplora il limite estremo dell’espansione urbana – scrive Stefania Zuliani in una breve nota di presentazione – verso gli svincoli delle superstrade di Parigi, Anversa e Berlino, immergendoci in terre di nessuno dove si stanno sviluppando grandi cantieri a proporre massicci agglomerati abitativi, per la maggior parte ancora privi di vita umana». E questa assenza è fortemente percepita dal visitatore attento che cerca, dopo una prima, frettolosa lettura, una risposta a delle domande sul perché del fotografare ciò che spesso sembra o appare come desolazione totale.
In una intervista di qualche tempo fa a proposito del fotografare architettura – e in questa mostra è soprattutto, se non proprio solo architettura – Musi diceva: «Per me l’architettura non è (tanto) scienza del costruire e neppure ipotesi sull’abitare, ma scrittura dello spazio in cui la forma progettata è condizione di ogni legittima invenzione di vita». Si riguardano quelle immagini e “diventano scritture di luce che inevitabilmente ci riguardano e ci coinvolgono”. Così quelle sessanta immagini poste ad andante musicale su un immaginario pentagramma diventano «documenti di mutamento – scrive ancora la Zuliani – ciascuna di esse dichiara uno spostamento, un passaggio, una interpretazione tanto coerente da costituire una nota sullo spartito delle pareti di quel luogo intriso di Storia».
E rimbalzano alla mente i richiami costanti, convinti del primo cittadino, Enzo Napoli, architetto, quando parla di questa città aperta ad anfiteatro sul mare dei miti, ed evoca cammini intelligenti, razionali, compatibili con lo sviluppo non solo umano e sociale, ma soprattutto culturale se la cultura è energia essenziale per una diversa e armoniosa crescita nel futuro.
Salernitano trapiantato da 14 anni a Parigi, prima ancora Milano e la Svizzera ticinese, Musi ritorna a Salerno con questa mostra-provocazione, uno svegliarino per una città che a volte fa fatica a riprendersi le sue identità. Una provocazione che “istiga” il visitatore alla lettura di “forme e geometrie” non contradditorie né isolate (il luogo, le foto, il visitatore) dove lo spettatore alla fine diventa protagonista e deve interagire. Dice Musi: «E una mia visione degli ultimi anni con un pensiero che non è stagnante: la mia formazione ed attività di fotografo è legata allo studio e alla ricerca, è sempre un divenire».
E ritornano gli anni giovanili quando Pino Musi ha attraversato le esperienze del teatro d’avanguardia e i suoi primi “viaggi” fotografici. E fu la pubblicazione “Maschere e persone” del 1983 con i testi di Paolo Apolito, Angelo Trimarco e Dario Ventimiglia. Un volume dove la gente senza storia cercava una propria storia esaltante, dove le maschere, soggetti antropoligici a risvolto religioso, diventano oggetto di osservazione diversa attraverso l’obiettivo di Musi.
Poi l’incontro con il ticinese Mario Botta, architetto, e il definitivo rapimento per la fotografia alta, di provocazione, di sperimentazione. Ricorda Musi: «Io del Sud Italia, lui ticinese, io, al momento del nostro incontro, neofita dell’architettura, lui architetto già molto affermato. Sembrava un rapporto impossibile e pure è durato più di vent’anni. Da lui ho appreso il rispetto per quello che si fa, la caparbietà, il metodo, l’onestà». Panta rei! Tutto scorre, tutto si trasforma in quella metamorfosi umana plasmata, giorno dopo giorno, dalla vita vissuta chiamata “esperienza”.
“Polyphonia” giunge a Salerno «perché la città – dice l’autore – possa dialogare e aprirsi a un dibattito contemporaneo. Sarebbe bello se venisse ripresa e Salerno divenisse un laboratorio di idee e provocazioni da parte di altri fotografi». A scorrere un immaginario taccuino, c’è da dire che sul versante fotografia la città davvero non difetta. Si pensi a Franco Sortini, amico e già partner giovanile di Musi, nonché frequentatore del laboratorio di Franco Fontana, a Corradino Pellecchia che più di una provocazione ha offerto, negli anni, a questa città e in specie al suo Centro Storico. E ancora c’è l’agropolese Gianni Grattacaso, con le sue “invenzioni” d’arte e i confronti internazionali, e Pio Peruzzini con i muri da percorrere nella solitudine silenziosa, senza dimenticare Antonio Caporaso e Jacopo Naddeo un duo che ha mostrato gli abbandoni delle nuove archeologie industriali, per finire ad Edoardo Colace tenace frequentatore di eventi da documentare.
Al suo attivo Pino Musi ha oltre venticinque pubblicazioni fotografiche, dove racconta l’Italia e l’Europa, l’architettura moderna e le rovine classiche, l’architettura rurale e i paesaggi urbani, ambienti tutti osservati come forme pure, arte astratta.
Per quanto si voglia dialogare su questa “Polyphonia” di Pino Musi, resta ferma l’identità vera dell’autore: fotografo in cerca di sempre nuovi interessi e spunti di riflessioni. Qualche tempo fa, ad una domanda di un giornalista sul perché di quelle sue foto, rispose «Mi sento qualcuno a cui interessa l’attraversamento delle discipline, dei temi, il confronto fra i linguaggi, l’apertura alla sperimentazione e non la chiusura su un modello funzionante, su una ripetitività di stile e di approccio. Le possibilità interpretative delle opere di architettura attraverso la fotografia devono intersecarsi con meccanismi di scambio fra i vari linguaggi della comunicazione e dell’arte».
Apertura mostra: dal 10 luglio al 5 settembre (da martedì a domenica dalle ore 10,00 alle ore 13,00 e dalle 18,00 alle 21,00).
Vito Pinto