Un piccolo paese del Cilento, tutte le problematiche di un dopo guerra disastrato, un artigiano o un contadino protesi a migliorare le condizioni socio-economiche dei loro figli, la mancanza di scuole primarie. Erano le condizioni, certo non inconsuete, che aprivano le porte del Seminario Diocesano ai ragazzi che aspiravano ad un riscatto dalla povertà perseguendo l’esercizio di una professione, o comunque una istruzione di base utile all’inserimento attivo nella vita sociale. Se a tutto ciò si aggiunge uno zio prete ed una formazione familiare di tipo cattolico, si comprenderà come chi racconta era addirittura entusiasta di entrare in Seminario per intraprendere la missione sacerdotale. Avevo tredici anni ed avevo frequentato la prima e la seconda classe della scuola media presso un insegnante privato sostenendo gli esami da privatista presso l’Istituto di Agropoli. Fu allora che scelsi con entusiasmo il Seminario, sicuro di potere rinverdire una tradizione familiare e, nello stesso tempo, frequentare una scuola regolare giovandomi della compagnia di tanti coetanei. E, perché no, sollevando la mia famiglia dalle spese onerose necessarie per l’insegnante privato. Prevaleva in me, però, l’aspirazione al sacerdozio, tanto che dopo tre mesi, il giorno 8 di dicembre, chiesi ed ottenni di indossare l’abito talare. Ero felice e godevo in cuore mio di un privilegio che ostentavo con soddisfazione al ritorno in paese. Raccontavo con piacere ai miei genitori dei vari insegnanti, di don Armando Borrelli, di don Giovanni Panzuto, di don Antonio Mainenti, dei nuovi metodi di insegnamento e del successo nello studio. Ero anche esaltato dalla compagnia di ben 120 seminaristi e dalla partecipazione che assicuravano le lunghe passeggiate, le partite di calcio sul campetto adiacente al refettorio e le ricreazioni in genere. Dovetti, certo, scontrarmi anche con il rigore imposto da don Rocco e dal suo Vice don Giovanni D’Angiolillo; ma non rappresentava un peso insopportabile. Anzi di entrambi conservo un buon ricordo. Il Rettore era un mito. Un uomo di cultura eccelsa, carismatico, rispettato ed amato da tutti, anche se molto severo nel suo credo educativo. Erano i tempi che esaltavano una didattica impositiva piuttosto che partecipativa. Don Giovanni era l’espressione più ortodossa del suo credo religioso ma interpretava il suo ruolo con severità estrema. Qualche volta anche esagerando nelle sue reprimende, proteso più alla punizione che alla comprensione della vivacità dei ragazzi affidati alle sue cure. Una espressione di troppo, una fila mal disposta o una distrazione erano motivo di rimprovero. Ma di don Giovanni ricordo anche e spesso, le lezioni di galateo che ci teneva nel pomeriggio del giovedì. Piccoli suggerimenti comportamentali, piccole indicazioni che fanno vivere il quotidiano che distinguono le persone per capacità, signorilità, educazione civica. Un moderno bon-ton che denota la personalità dei soggetti e ne esalta le caratteristiche psicologiche, morali ed intellettuali. Personalmente posso dire di essermi giovato di quegli insegnamenti e di averli trasmessi ai praticanti del mio studio legale, molto spesso ignari anche delle modalità di impaginazione degli scritti e degli indirizzi sulle buste. Tutto però durò due anni. A 15 anni mi accorsi che la mia era stata una mera infatuazione e non una vera vocazione, sicché raccontai a mia madre i miei travagli, le mie debolezze e le mie aspirazioni. Ero rammaricato, quasi piangevo, nel chiedere di ritornare in famiglia; mamma mi abbracciò, mi diede un bacio e disse: “Segui la tua strada, cristianamente”. L’ho fatto e porto ancora con me molti degli insegnamenti acquisiti tratti dalle esperienze vissute in Seminario.
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