Saucony Trial in borsa ogni volta che torno a Piaggine, per progetti di camminate impegnative che non sempre mantengo. Tra le geometrie familiari dei vicoli, scalini antichi coi bordi bianchi, una macina di pietra di un ex frantonio, zampette di ragni alle serrature di porte chiuse, dove vecchiette un tempo si affacciavano per chiedere Na né, ma tu a chi appartieni?
Di solito salgo verso il monte Vivo, a cercare spazi aperti, echi di campane ai colli di vacche lontane, e mi spingo fino all’abbeveratoio poco sotto la cima, a fotografare come un ebete ogni volta la stessa cosa, il riflesso di luce sull’acqua nelle due vasche.
Così, compiuto il rito, rientro a casa senza scrupoli per le calorie aggiuntive che mi meriterò a pranzo, e attraverso i Patri per rivedere l’Istituto Magistrale ormai chiuso. Mancanza di alunni. Il cancello serrato, le finestre opache, l’intonaco ammalorato, parlano chiaro.
Eppure, quand’ero ragazzina, eravamo in tanti destinati alle aule, nei vicoli delle mie Coste almeno una ventina, tra maschi e femmine, più o meno votati alla scuola, ma tutti bravi a far squadre di palle di neve d’inverno, mirare ai piscioli di ghiaccio pendenti dai tetti, farli cadere e segnare punti.
Era in quel periodo, forse di terza elementare, che si inaugurò l’Istituto Magistrale “G. Roselli”, un giorno di cui ricordo tutta la concitazione, le maestre che ci disponevano nel migliore dei modi, i grembiuli e i fiocchi distintivi e le scritte di benvenuto all’Onorevole artefice del successo.
L’edificio campeggiava dietro al campo sportivo coi mattoni rossi e le grandi vetrate, le veneziane verdi, un palco davanti e un tappeto rosso che si prolungava per tutto il Viale Europa fino alla piazza dove la banda, la folla, le autorità attendevano gli ospiti illustri. Per poi seguire in corteo, magari in buona posizione per farsi riprendere dalla TV.
Il Viale, noi schierati a ridosso delle ringhiere, era lindo senza una foglia d’albero a terra.
E proprio a guastare la perfezione veniva dai Patri un asino con due sporte di paglia sul dorso, affiancato dal padrone, lenti e curvi entrambi, pronti a impegnare il tappeto e di sicuro la telecamera.
Ma com’è possibile, zio’Lui’, ma proprio ora? Disse una guardia sconcertata, provando a farli indietreggiare senza successo: tra incitazioni, paglia che si sgretolava, una coppola gettata a terra, l’asino si impuntò, torse il collo, si sbilanciò e si accasciò.
Arriva arriva! Giusto in tempo riuscirono a raddrizzarlo e a deviarlo, ma quello, prima di sparire, alzò la coda e lanciò una sfilza di polpette fumanti nel punto strategico. Si vide una ramazza, due donne tapparsi il naso nel tentativo di coprire la macchia.
Arriva arriva! Attaccò il maestro, musica e applausi, scarpe lucide superarono il punto cruciale spedite verso il palco.
Forse è vero che la merda porta fortuna, perché tutto andò liscio quel giorno, quell’anno e tanti anni: più gente, più lavoro, pullman a far la spola dai paesi vicini, visibili da lontano come lombrichi azzurri tra tornanti e stradine. Il fornaio si asciugava la fronte appena consegnati i panini al mattino, il salumiere tagliava mortadella o salame e li incartava, pronti sul bancone da acchiappare e pagare al volo.
Così le lezioni sapevano di Dante e di mortadella, un profumo caldo che esalava da sotto i banchi, e le aule erano sedi di rendiconti amorosi, alla ricreazione, esagerati o meno, da far invidia alle meno fortunate costrette ad inventare. A San Valentino le più belle scartavano pacchetti consegnati in segreto. Una missione arcaica, desiderio dei genitori: un marito, o un titolo. Un lavoro.
Guardo le mie scarpe azzurre, e in alto il cielo di novembre, un sole che respinge sulle cime le nuvole deboli, come le ansie di allora – a saperlo – ansie di apparenza, paure e smanie di successo. Come sono leggere adesso, e spio l’orologio, che è tardi.
Che ora so’, na né? mi chiede una vecchietta davanti a una porta, e poi aggiunge Ma tu a chi appartieni?