L’angoscia per un futuro incerto ed un presente di disagi, dolore e morte genera una costante e pervadente paura, accentuata dalla mancanza al nostro fianco di una figura paterna capace di rassicurarci e, prendendoci per mano, farci vedere la luce oltre il tunnel. Ci sentiamo dei vasi di creta condannati a condividere con chi ha una corazza di acciaio le briciole nella corsa per consumare quel poco o quel tanto che l’esistenza riserva? Molti propongono ricette contrastanti, rivali e non convergenti; allora non basta il coraggio, occorre riguadagnare fiducia e scegliere la vera via che, proclamando la verità, ci fa approdare ad una nuova e liberante vita, trasformare le speranze in un inno alla calda bellezza di un incontro di esaltante reciprocità. Via, verità, vita: sono tre parole che non possono essere solo pronunciate, ma vanno vissute considerando inseparabili i concetti che evocano, efficace antidoto all’angoscia che genera paura.
Diversi sono i modi di proclamare la verità. Nella storia dell’umanità le scuole di pensiero si sono susseguite lungo i secoli, a volte hanno dato un considerevole contributo per schiarire il velo che accompagna da sempre nel viaggio dalla caverna alla luce. Però nessun maestro si è proposto come la verità da intendere non solo insieme di conoscenze, ma personale esistenza e, nell’affermare ciò, promettere di generare vita procurando con i suoi gesti libertà. La verità proposta dal Maestro di Nazareth è coraggiosa e amabile, non arrogante e pronta a far violenza divenendo di conseguenza dispotica. Non s’impone per decreto, ma è vita vissuta a noi partecipata.
Questo messaggio è stato proposto domenica scorsa per affermare che più vangelo si sperimenta nel quotidiano, più si apprezza la qualità della vita nei gesti dell’amare, dubitare, credere, osare incontrando così il respiro amorevole del Padre.
Quindi risulta ancora determinante la domanda posta dai discepoli a Gesù che annunciava la sua partenza (Gv 13,33-34) dopo aver consegnato il comando dell’amore come perno del suo insegnamento, non precetto astratto, ma coinvolgente prassi di vita. Dove vai? E’ la reazione preoccupata di discepoli turbati; ritengono di non poter vivere senza lui accanto. Gli chiedono perciò dove sia diretto, un tentativo di razionalizzare la paura e contrastare il timore del nulla evocato da quell’addio.
Gesù tranquillizza esortando a vincere angoscia e ansia per il futuro; lo sconforto della separazione trova consolazione nella fiducia in Dio. Così Egli realizza la sua missione salvifica e fa intravedere la casa del Padre, meta dell’umanità redenta; qui ciascuno ha un posto da occupare in un contesto di rasserenante armonia perché – Cristo afferma – «Chi ha visto me, ha visto il Padre».
Tommaso-Didimo, che ha bisogno di vedere per credere, pretende come noi segni tangibili. E Gesù, paziente, spiega che è stata inaugurata una presenza, non legata alla sua persona fisica o ad un particolare luogo, da riscontare nel vissuto delle singole esistenze. A Tommaso, che incalza – “come andare se non si conosce la via?” – Gesù indica la meta asserendo che passa attraverso di Lui. Così anche a noi perviene il conforto perché la sua assenza non è il vuoto di chi è scomparso, ma un modo diverso d’intessere relazioni nell’amore reciproco, segno distintivo del Risorto e mezzo che lo rende presente nella comunione fraterna. Allora il Padre tornerà a prenderci per mano per guidarci nella sua casa dove è pronto il necessario per celebrare una festa senza fine. Ecco perché Gesù è ancora la nostra pietra angolare (Fil 2,9-10).
Alcuni rimangono insoddisfatti perché la Scrittura non si riassume in precetti morali; dimenticano che la Parola è prima di tutto luce, rivelazione che genera liberante fiducia e la forza di percorre la via per andare verso il Signore.