Mi sveglio. Durante il riposo notturno il mio corpo ha continuato ad espletare le sue funzioni fisiologiche senza che nessuna consapevolezza fosse loro messa a guida, senza nessuna volontà. Il respiro ha agito in me la vita, la sua intima resistenza ha seguito un’intelligenza superiore, che mi abita e che io dimoro, in cui trovo casa. Con la coscienza poi mi si impone un nuovo ritmo: inspirazione ed espirazione si accelerano, dal diaframma, dalla pancia, secondo cervello umano, l’aria passa a riempire anzitutto i polmoni. Sono viva. Da quando i Presocratici (VII e il VI secolo a.C), con la loro filosofia della natura, ricercavano l’arché, ovvero il principio originario di tutte le cose, al di là dell’umano, sono trascorsi secoli. Da quando l’aria o l’acqua, vento, nuvole e terra, e le opposizioni primarie di caldo e freddo, umido e secco, venivano prese in considerazione per identificare un’origine e un’unità razionale tra tutte le cose, creature viventi incluse, centinaia di migliaia di logoi hanno frammentato la visione dell’universo e dell’ecosistema Terra.
Di lì a breve, già con Socrate e i sofisti si compiva il passo falso verso quell’antropocentrismo che, ergendo l’uomo a misura di tutte le cose, non disdegnava di indicare nella civiltà la vera finalità dell’esistente. Il discorso intorno alla civiltà, o anche quello affine, sulla comunità, mi ha sempre affascinato molto. Di così poca memoria che ho del passato in generale, laddove filosofie del qui ed ora hanno messo in me radici necessarie, resta a questo proposito un nitido ricordo, risalente agli anni dei miei studi universitari. Si tratta del testo del filosofo napoletano Roberto Esposito dal titolo: “Communitas. Origine e destino della comunità” che di fatto, ad ogni occasione buona, non mi stanco mai di citare. Comunità, riflette Esposito, è termine di derivazione latina, il cui significato primario, e dell’aggettivo corrispondente communis, comune, assume senso dall’opposizione a “proprio”. Ciò che è comune infatti appartiene a molti, o a tutti, è pubblico e non privato, è, dunque, sociale. Ne abbiamo conferma dal termine munus, da cui proviene, che ne riconduce il significato alla sfera concettuale proprio del sociale e anche del dovere. Ciò che ne risulta è l’idea della comunità come dovere sociale. Un processo di speciazione il quale, in quanto nella sua complessità appanaggio della sola specie umana, eleverebbe l’uomo al ruolo di primo agente in un rapporto di scambio contrattuale. Il munus è, pertanto, “l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’altro e che sollecita una adeguata disobbligazione.” La cosa pubblica. L’unica dimensione dell’animale ‘uomo’ eppure anche la sua deriva potenzialmente dissolutiva.
In altri termini il limite intrinseco della cosa pubblica.
Con l’istituzione della societas (nel diritto romano un contratto consensuale), il mondo occidentale ha creduto di poter regolare ognuno dei suoi rapporti su un concetto di proprietà, armando spartizioni e finendo con l’autoproclamarsi padrone del mondo.
Quel tutto di cui in realtà l’essere umano è piccola parte, è stato ridotto a “cosa”, finanche nelle sue forme più costitutive ed essenziali, come le risorse naturali.
Accade cioè che l’uomo agisca sulla natura, manipolandola ai suoi scopi. Non se ne prende cura. Non istituisce con essa nessun rapporto di parità. Di norma ciò che vige è un rapporto di sfruttamento. Non dimentico, e non va dimenticato, che questa ipertrofia del soggetto uomo nei confronti delle altre specie viventi ha ricevuto la sua benedizione dal Cristianesimo. Non è un caso che, nelle culture occidentali, e per noi Italiani più che per altri, la risoluzione della quaestio sull’origine del mondo è finita nelle mani di un dio che crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, dandogli il “potere del nome”. Le civiltà orientali, come quelle africane, sebbene in diverse declinazioni e pur essendo a pieno titolo civiltà, basano la loro concezione della natura su presupposti completamente diversi, facendo riferimento ad una divinità che permea di sé la realtà intera. È proprio delle religioni monoteistiche invece pensare all’uomo come ad una divinità in miniatura, che quindi permea di Sè la realtà.
La ricerca di una nuova etica della relazione, tra uomo e natura, emerge oggi con prepotenza. In circolo a partire dagli anni ’70, la parola “ecologia”, intesa nel suo significato di problematica ambientale, ha fortunatamente introdotto nuove visioni e nuovi scenari nella cultura contemporanea. L’istituzione dei primi Ministeri per l’Ambiente, in America e poi anche in Europa, ha mostrato l’inevitabilità di una presa di coscienza collettiva, e la necessità di un’azione guaritrice, nei riguardi di tali aspetti della nostra presenza sul pianeta.
La rivoluzione delle energie verdi in corso è parte di questa caccia all’oro, un processo di ‘accaparramento’ apparentemente virtuoso di cui, nei prossimi decenni, si attendono gli esiti.
Coscienze ecologiche vanno sempre più delineandosi e un new green deal è in discussione sui tavoli dei Parlamenti. All’antropocentrismo si affiancano altri -ismi, biocentrismi, antispecismi, animalismi che stimolano sempre con maggiore enfasi la discussione intorno all’ecosistema Terra. Ognuna di queste visioni possiede valore, e acquista sempre maggiore dignità nel dibattito mondiale. I gruppi dell’attivismo ecologista mettono in discussione la modalità intrinseca del sistema socio-economico di regolarsi, mediante un debito, e non un dono. Denunciano l’assenza di reciprocità tra l’uomo e il ‘sistema’ natura. Quel dare che non è mai solo un dare, ma è sempre il bordo di un vuoto a prendere e non di un vuoto a rendere. Pratiche di una coscienza verde che sono andate smarrite, anziché essere rafforzate. Mi dico che forse una pratica qualsiasi necessita di solide basi teoriche, di un’ecologia che sia anzitutto della mente, poiché “la visione che le persone hanno della natura determina le loro istituzioni” e un capovolgimento delle stesse non può che partire da un capovolgimento dello sguardo. Al centro, perchè l’uomo dunque, e non un pianeta verde?