La mia abitazione è collocata al centro del paese, dove dopo la fine della quarantena si svolge la “movida”. Dalle undici di sera, una fiumana di giovani e di ragazzi fluisce verso la piazza e per due o tre ore forma vocianti gruppi e gruppuscoli. Così si propaga l’eco indistinta di un coacervo più o meno consapevole di domande che attendono risposte di senso.
Una notte ho avuto la sensazione che quei rumori si trasformassero in ossessivo ripetersi del passo dell’Apocalisse circa i limiti di Laodicea, comunità ecclesiastica che racchiude nel nome la sua ricerca del diritto del popolo, dimentica, però, di quello di Dio. La mattina seguente mi sorprese la consegna per posta del volumetto di mons. Antonio De Luca, “Prendersi cura”. Prima l’ho sfogliato, poi l’ho letto d’un fiato per condividere con l’autore i pensieri, vero antidoto in tempo di crisi, invito ad operare scelte di umanità considerando i valori dello spirito nel regolamentare l’esperienza quotidiana, efficace incoraggiamento in un periodo di smarrimento e di paura.
Il presule ha indirizzato ai fedeli della sua diocesi delle note settimanali per sostenere nell’incertezza, sgombrare preoccupazioni, asciugare il pianto, invitare alla speranza, sollecitare la carità dei piccoli gesti in giorni di forzata reclusione. Egli è convinto che la saggezza di una personale meditazione può trasformare una triste ferialità e la stanca monotonia del quotidiano in opportunità per riflettere sulla fine del mito del progresso illimitato ed acquisire una visione capace di superare la paura e trovare consolazione, malgrado la solitudine determinata da porte rigidamente chiuse. La cronologia di una quarantena diventa così “kairos” per porsi domande e riflettere se è giunto il tempo di cambiare mentalità e accettare la fatica della ricerca e, in tempo di crisi, saper leggere i segni della primavera. Il messaggio si trasforma in una concreta scelta di prendersi cura degli altri grazie alla pazienza che genera entusiasmo e fa diventare veramente adulti. E’ un opzione valida per tutte le età perché aiuta a comprendere che dono della vecchiaia non è la longevità, ma la capacità di mantenere giovane il cuore comunicando speranza, grande opportunità di educazione pur tra lancinanti dolori e traboccante stanchezza.
Molti di questi spunti e considerazioni trovano una singolare rispondenza nel saggio di Giuseppe Cacciatore “Sulla Pandemia” (D’Amato editore). Il noto filosofo salernitano ha raccolto articoli di giornale pubblicati tra febbraio ed aprile ponendo un “cataclisma di domande e interrogativi” sul perché il morbo fa paura. Come dimostra la storia, al di là dei danni economici, sociali, biologici e psicologici, la pandemia è stata sempre una miscela esplosiva che influisce sulla mentalità collettiva e determina reazioni inconsulte di caccia all’untore. Il razzismo verbale di questi mesi dimostra quanto sia necessario usare la ragione contro il contagio che assilla il mondo. L’autore analizza alcuni aspetti della vita profondamente colpiti dal virus a partire dall’allarme per la drammatica ricaduta sull’occupazione, una situazione che ha incrementato ancor più la diseguaglianza tra cittadini. Intanto, una evidente tentazione purtroppo cerca di trasformare la crisi in un’egoistica opportunità e non considera la rabbia montante di chi subisce un progressivo impoverimento per una miope politica di occupazione. Il professore Cacciatore evidenzia alcuni interrogativi etici tra i quali quello drammatico posto ai medici nel momento di maggiore morbilità e sintetizzato nel brutale interrogativo: guarire il giovane e far morire l’anziano? Attualmente ci si sente abbastanza garantiti per il radicato orientamento europeo a tutelare la salute, rafforzato dal governo italiano impegnato a non posporre la salute del cittadino a quella sociale dell’economia dei consumi e della produzione. Il filosofo denuncia il torpore dell’intellettualità mondiale col rischio d’insidiare un portato della civiltà espresso icasticamente da Enea che, fuggendo dal rogo di Troia, si carica il padre sulle spalle e prende per mano il figlioletto, un modo per affermare l’insostituibile valore delle persone anziane.
La lettura del saggio del vescovo di Teggiano può essere una risposta particolarmente feconda a questi interrogativi se si è disposti a riconoscere Gesù nostro fratello necessario per non allentare la vigilanza soprattutto nella “ora nona” della crisi.
Ma quanti conoscono una particolare dimensione dell’azione di Gesù, il quale duemila anni fa ha difeso la “piccola tradizione” dei contadini angariati e dei pastori tartassati della Galilea? Egli non ha esitato a porsi in aperto contrasto con i gestori del Tempio, sacerdoti venduti allo straniero dominatore, sadducei attenti ad accrescere i loro forzieri d’oro e sottili farisei, tartufi in grado di spaccare in quattro il più piccolo precetto per dare fondamento alle pretese dei veri padroni del vapore, situazione che, pari pari, oggi si proietta sul pianeta soggetto a spietata globalizzazione. Edulcorato in una devozione che dice poco o nulla alle giovani generazioni, Gesù è stato confinato in una nicchia rendendolo sempre più distante dal nostro quotidiano. Invece, conosciuto bene, egli si rivela sempre più il nostro fratello necessario per liberare i comportamenti dall’egoismo interessato e cominciare a profumare di giustizia.
Le note settimanali di mons. De Luca tracciano in controluce il percorso esistenziale di Cristo grazie al dolore innocente che conferisce speranza e senso vero alla vita, per il carattere gratuito del suo amore rifiutato e tradito, ulteriore passione interiore segnata da separazione ed allontanamento fino al più assoluto silenzio, quello duplice degli amici e del Padre, profonda ed intima lacerazione dello spirito.
Al classico scetticismo dell’intelligenza, caratteristica del filosofo, si affianca l’auspicio di ottimismo della volontà sollecitato dal presule per evitare la catastrofe e poter continuare a sperare. E’ il messaggio che si desume dalle immagini di copertina del volume: una mano che irriga una piantina appena sbocciata e il cui stelo diritto emerge da un terreno pieno di humus, promessa di abbondante raccolto.
Nel riflettere sulle vicende legate al coronavirus, un vescovo ed un filosofo hanno colto la convergenza di parallele il cui incontro potrebbe rendere luminoso il nostro futuro e, come il salmista, far cantare l’umanità: “a te voglio inneggiare:/svegliati, mio cuore, svegliati arpa e cetra/, voglio svegliare l’aurora”.
L.R.