Come si diventa grandi? Quando smettiamo di essere bambini? Ognuno di noi ha, probabilmente, una propria idea di crescita. Ciascuno sa quale esperienza, nella propria vita, ha segnato la trasformazione, il passaggio dalla spensieratezza infantile alla consapevolezza adulta. Per alcuni potrebbe essere un evento traumatico: la perdita prematura di un genitore, ad esempio. Per altri, più fortunati, il primo giorno di scuola, la nascita di un fratellino, un traguardo raggiunto. Se mi domandassero di individuare un momento di transizione personale, risponderei che sono diventata “grande” nell’istante in cui ho realizzato che Babbo Natale non esiste. Questa scoperta, compromettendo inesorabilmente una certezza inconfutabile, mi ha svelato quel senso di vulnerabile precarietà, prima sconosciuto, che mi avrebbe accompagnata durante tutta l’età adulta, in altre esperienze della vita.
Quando, per la prima volta in Senegal, ho incontrato i bambini Talibè mi sono chiesta se fosse umanamente possibile considerarli e definirli tali. L’età anagrafica e i corpicini esili sono, certo, caratteristici dell’infanzia. Ma i loro sguardi impauriti, la diffidenza con la quale ti scrutano intimoriti quando li avvicini, rivelano l’atroce consapevolezza di chi conosce l’indigenza, la violenza, la disumanità che nulla ha della spensieratezza infantile.
Talibé in wolof, la lingua del Senegal, significa discepolo. Provenienti da famiglie indigenti, affidati ai Marabout, autorità religiose dell’Islam, con la promessa che nelle scuole coraniche potranno ricevere un’istruzione e, quindi, un futuro migliore, questi bambini si ritrovano consegnati, invece, ad un destino peggiore: sfruttati, abusati, costretti (scalzi, sporchi, affamati) a mendicare. Bambini che sopravvivono ad una vita adulta, in condizioni disumane.
La mattina che ho scattato queste fotografie mi trovavo sulla strada principale di Malika, nella provincia degradata di Dakar. I bambini, con i loro inconfondibili secchielli di plastica, chiedevano l’elemosina ai passanti. Avrei desiderato donare loro il mondo ma avevo terminato i giocattoli che avevo portato per loro dall’Italia. In borsa erano rimasti solo dei palloncini e, ragionando con le sovrastrutture di una persona alla quale la vita ha donato anche di più di ciò che desiderava, ho pensato che non fosse granché. Mentre indugiavo sulle mie farneticazioni, uno di loro mi é venuto incontro e, prendendomi per mano, mi ha condotta tra gli altri. Mi sono così ritrovata a terra, seduta a gonfiare palloncini, tra gli sguardi emozionati ed increduli di questi meravigliosi bambini che, considerando il loro stupore, probabilmente, non ne avevano neppure mai visti prima. I cuccioli Talibè hanno apprezzato i palloncini come il dono più prezioso di Babbo Natale tanto che, più tardi, li ho rivisti per strada mentre, entusiasti, continuavano a farli volare. Solo per un attimo, questi grandi bambini adulti, mi sono sembrati proprio dei bambini veri. Quelli che hanno il diritto di affidarsi alla vita senza riserve: con la stessa fiduciosa speranza con cui, almeno da piccoli, confidiamo in Babbo Natale.