Ci sono delle località che fecondano di desideri l’immaginario collettivo e ne scatenano emozioni.
Paestum è una di queste. Lo è, di sicuro, per lo stupore dei templi dorici, che, a distanza di millenni, accendono ancora bagliori all’ocra delle colonne scanalate, per l’aria di sacralità che si respira nel Museo che espone lastre sepolcrali dipinte, vasellame policromo, metope a memoria di eroi e dei, per la “curiositas” di ricerca che stuzzicano foro, teatro, termae e tabernae a fuga/arredo di cardo e decumano, per le mura ciclopiche a cintura della città dissepolta, per le porte che si aprono a trasmigrazione di pianura e colline a figurare ricche attività e vocianti commerci a conquista di mercati interni, naturale prosecuzione delle rotte del Mediterraneo.
Ma lo è, soprattutto, per quel pantheon di eroi e dei, che i Padri Geci si portarono dietro, con profonda “pietas”, dalla patria di origine quasi a vademecum/protezione nella nuova città.
Alla foce del Sele approdò Giasone con il prezioso carico del vello d’oro, perseguitato dal rimorso/incubo di Medea accattivante nell’arte della seduzione e travolgente nella generosa passionalità dell’amore quanto perfida e lucidamente spietata nella trama macabra della vendetta: e vi fondò un tempio, quasi a scongiurare i pericoli
A Capodifiume le colonne mozzate di un altro tempio, che emerge dal minuscolo lago a raccogliere acqua di sorgente sulfurea, parlano di Persefone, dea di notte e giorno, di luce ed ombre, di inverno e primavera nell’alternarsi del ciclo delle stagioni, che, come quelli dell’amore, conoscono morti e resurrezioni, irruenti passioni e lunghi letarghi, profumate carezze primaverili e malinconici assopimenti autunnali. E sulla spianata della collina sovrastante una Madonna, nel carcere di una nicchia, esalta e purifica, nella ritualità cristiana, la paganità del rito con il “granato”, che da sempre è simbolo di amore con il rosso squillante dei fiori a giugno e con il sorriso contagioso dei chicchi ad esplosione di frutti in autunno, quasi ad indicare un percorso delle fasi di evoluzione dell’amore (della terra e dell’uomo):dolce trasalimento nell’innamoramento, furente passione, esplosione di nuova vita nella generosa fecondità
E Paestum diventa, così, la sede eletta e deputata al culto di Cerere e Cibele, di Iside e Demetra, di Persefone e, soprattutto, di Era Argiva, nomi diversi della stessa Magna Mater mediterranea, dea dell’amore e della fecondità. Questo patrimonio di culti con ritualità diverse dagli Antichi (Fenici, Egizi, Etruschi, Greci, Romani, Cristiani) fino ai nostri giorni consente di organizzare e spettacolorizzare eventi che scavino nell’anima dei luoghi, anche perché la città si identifica da sempre nella ritualità/culto per Hera, pronuba di rigenerazione di vita nella e con la fecondità per gli uomini e per la terra.
E, pertanto, nel nome di Hera Paestum può e deve cercare, (secondo il mio modesto parere) ispirazione per la promozione delle proprie attività, nel segno del turismo culturale in profonda sinergia con le specificità dell’agricoltura fecondata dalle acque sacre, nastri azzurri di vita ad irrigazione di pianura.
Naturalmente va benissimo la promozione della mozzarella, di cui una apposita commissione prepara l’annuale salone. Ma è opportuno e, secondo me, necessario, estendere il discorso alle altre tipicità del territorio, a cominciare dal carciofo, per continuare con le fragole e finire con la dieta mediterranea, che nel pane e nel vino trova la sua esaltazione.
Rimando ad altra occasione l’analisi più approfondita su carciofi e fragole, per concentrare, in chiusura, la mia riflessione su “la dieta mediterranea”, per registrare, con disappunto, che, da qualche anno a questa parte, si moltiplicano convegni, crescono come funghi i corsi di formazione che hanno questo tema. C’è il rischio concreto di banalizzare una bella pagina della nostra storia per il dilagare di un esercito di pressappochisti, replicanti ed orecchianti, che, senza pudore e senza senso del limite e della misura, si autoproclamano “esperti” del tema. Appartengono alla stessa categoria dei “pittori della domenica”, che imbrattano tele, autoproclamandosi artisti e dei versificatori tanto al chilo, che si definiscono pomposamente “poeti”. E il dramma è che trovano, a volte, porte aperte, anzi spalancate, presso sindaci ed assessori sprovveduti con conseguenze “culturali!?” disastrose, La stessa cosa vale per la dieta mediterranea, appunto, che è riproposta in ogni angolo dell’una e dell’altra costa da impudenti venditori di fumo, fatta qualche rara eccezione. Ancel Keys si rivolta nella tomba. Secondo me, è necessario, impellente ed indifferibile correre ai ripari, prima che si imbastardisca il tutto- Se ne rendano conto, nel Cilento, Vincenzo Pepe, presidente della Fondazione Vico, Gerardo Siano, presidente dell’’Associazione Dieta Mediterranea, salute e longevità, il presidente del Museo della Dieta Mediterranea di Pioppi e, nella Costa d’Amalfi, Andrea Reale, sindaco di Minori, città del gusto, a volte troppo compiacenti a concedere fiducia ai cialtroni improvvisatori. Vorrei sommessamente ricordare a tutti che noi da sempre andiamo a tavola in compagnia di Cerere e Cibele, dee dei cereali, di Persefone/Proserpina dea dell’alternarsi delle stagioni, di Bacco/Dioniso, dio del vino, di Minerva/Atena, dea dell’olio e, da secoli, le generazioni nate e vissute nel nostro territorio si sono educate al canto della poesia di Omero e dei tragici greci, della grande poesia latina di Virgilio e Orazio, della prosa poetica de “Le opere e i giorni” di Esiodo. Noi respiriamo aria di mito, che è connaturato alle ragioni stesse della nostra esistenza. Perciò, forse, è il caso che, quando parliamo del nostro passato, cominciamo ad usare toni che si addicano di più alla nostra storia e al nostro DNA, come “Cucina degli dei”, “A tavola con gli dei” e che il nostro linguaggio sia di tono alto, scoraggiando le fumisterie dei cialtroni improvvisatori e che, pertanto, anche i gesti della nostra quotidianità esaltino la ritualità del sacro nella orgogliosa consapevolezza che dobbiamo tornare a “Mangiare con gli dei e come gli dei”. Questa forma di educazione/formazione avrebbe dovuto farla, negli anni, il Parco, ma non l’ha fatto ancora. Ci pensino, allora, Fondazioni (Vico ed Alario) ed amministrazioni locali, se ne hanno voglia e, soprattutto, capacità, riscoprendo ed esaltando orgoglio di identità e di appartenenza nel segno della CULTURA Credo che, tra le Amministrazioni del territorio, lo debba fare soprattutto quella di Capaccio Paestum per onorare la sua storia. e la sua tradizione, a cominciare dagli assessori all’agricoltura, al turismo ed alla cultura a ciò deputati per legge. E spero fortemente che non considerino questa mia riflessione come una indebita intrusione, ma semplicemente come un doveroso atto d’amore per il territorio che mi ha dato i natale. L’importante è muoversi con le idee chiare e con progetti credibili e di ampio respiro e VOLARE ALTO. Diversamente la prospettiva poco esaltante è quella di sempre: arenarsi nel pantano limaccioso della routine della quotidianità.