di Antonio Miniaci
L’Italia è universalmente riconosciuta come uno dei Paesi più ricchi di bellezza, storia e cultura. Tra le sue gemme più preziose vi è sicuramente Paestum, sito archeologico di valore inestimabile, immerso in un territorio straordinario dal punto di vista paesaggistico, storico e culturale. Eppure, troppo spesso chi vive in questi luoghi finisce per non apprezzarne fino in fondo il valore. Al contrario, sono spesso gli italiani all’estero — circa 100 milioni nel mondo — a riconoscere la fortuna di avere origini in un Paese così straordinario.

Molti di questi connazionali, pur avendo lasciato l’Italia da decenni, continuano a guardare alla propria terra con affetto e speranza. Hanno vissuto e lavorato in contesti diversi, arricchendo le società in cui si sono inseriti, ma senza mai spezzare il legame con le proprie radici. Portano con sé una visione più ampia, maturata attraverso esperienze internazionali, e desiderano vedere l’Italia evolversi, con una nuova mentalità aperta al cambiamento, all’innovazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale.
Paestum, con il suo straordinario patrimonio archeologico e ambientale, potrebbe diventare un punto di riferimento nel panorama del turismo culturale di alta qualità.
Finora, diversi amministratori locali hanno cercato di avviare processi di valorizzazione, ottenendo in alcuni casi buoni risultati, ma senza riuscire a imprimere una vera svolta. Le cause sono molteplici: mancanza di continuità, risorse limitate, ostacoli burocratici, ma anche — e forse soprattutto — una visione a breve termine che non ha permesso di cogliere pienamente le opportunità legate al turismo culturale d’eccellenza.

Con l’avvicinarsi delle nuove elezioni comunali, si apre oggi una nuova possibilità: quella di eleggere una figura capace di guidare Paestum verso una reale trasformazione, puntando su cultura, arte, innovazione e sostenibilità. Una figura che sappia valorizzare il contributo dei cittadini, in particolare di coloro che, vivendo all’estero, possono offrire competenze, relazioni e visioni maturate in contesti internazionali.
Parlo con cognizione di causa. Ho lasciato questa terra circa sessant’anni fa e ho vissuto in città come Milano, New York, Miami, Hong Kong e Bruxelles. In particolare, dopo il mio soggiorno a Miami mi sono reso conto che la città e tutta la Florida hanno vissuto una trasformazione radicale, divenendo in pochi anni un centro di attrazione per il turismo culturale di alto livello, grazie a una pianificazione strategica e all’investimento sull’arte e sull’accoglienza.
Perché non immaginare un futuro simile anche per Paestum? Perché non farla diventare un punto d’incontro tra la cultura classica e l’arte contemporanea, tra la tradizione e l’innovazione? L’Italia dispone già di modelli virtuosi come Capri, Positano e Ravello e tante altre città, che dimostrano come la bellezza possa tradursi in sviluppo sostenibile, occupazione qualificata e prestigio internazionale.
Per realizzare tutto ciò, è indispensabile un cambio di passo. Serve una nuova visione, una strategia condivisa e un’amministrazione capace di coinvolgere cittadini, imprenditori, operatori culturali in un progetto di rilancio autentico. Serve soprattutto la consapevolezza che la cultura non è un ornamento, ma un motore di sviluppo.
Paestum ha tutte le potenzialità per diventare una delle capitali culturali del Mediterraneo. Ora tocca ai residenti e agli amministratori unire le forze per trasformare questo sogno in realtà.
CHI È ANTONIO MINIACI:
Quello che vorrebbe Antonio è che Positano restituisse il turismo di qualità a Paestum, facendola finalmente emergere come sito culturale e riscattando tutte le zone limitrofe. Attraverso la storia di Paestum e Positano vuole raccontare come queste due realtà siano strettamente connesse e di come l’una potrebbe aiutare l’altra ad emergere
Antonio Miniaci nasce ad Albanella, un paese di collina nel Cilento. È un centro abitato molto semplice, ma pieno di persone in fermento e caratterizzato da un panorama meraviglioso. Viene cresciuto e coccolato dai suoi nonni sulle alture della cittadina, fino a quando non sarà costretto a trasferirsi nella piana di Paestum.
La sua storia trae origine dal Medioevo, le sue radici risalgono a più di mille anni fa, precisamente alla notte del 23 giugno del 915. Che cosa accadde quella notte? Prima di raccontare le vicende storiche, è bene chiarire le motivazioni per cui i secoli medievali sono denominati secoli bui. Luciano De Crescenzo, nel suo testo affermò che a spegnere la luce furono la Chiesa e i Barbari. L’assolutismo e il potere temporale dell’ecclesia, uniti alle disgregazioni dei popoli a causa delle invasioni barbariche, spensero la luce delle età dell’oro, prima ellenistica e poi della Roma Imperiale.
I “barbari nostrani” erano di origine araba, i temutissimi pirati Saraceni. Si è utilizzato il termine arabo in questo caso, perché in quell’epoca esso era sinonimo di musulmano, dato che molto spesso vi era una confusione geografica e antropologica, fra gli Arabi europei di Sicilia e di Spagna e gli Arabi del Nord Africa e gli Arabi del Medio Oriente. L’unica cosa certa era la differenza tra islam e cristianesimo.

Noti in tutto il Mediterraneo per i loro saccheggi e per le loro razzie, questi pirati infestavano le martoriate regioni del Sud Italia. Una schiera di essi accampata ad Agropoli, dopo aver
considerato il momento proficuo per attaccare le sponde cilentane, ebbe la capacità di annientare le difese della nobile città di Paestum o Posidonia, che presero proprio la notte del 23 giugno 1915.
Alcuni fra i superstiti, ritenendo inutile ricostruire la città in una zona malarica, si rifugiarono sulle alture, dove secondo le cronache dell’epoca, fondarono un nuovo insediamento che, dalle sorgenti del fiume Sele, prese il nome di Caput Aquae, termine dal quale deriverebbe il toponimo Capaccio. Altri superstiti, invece, fuggirono via mare, alla ricerca di un luogo dal clima più salubre.
Il 25 giugno, diretti verso le coste dell’antico Ducato bizantino di Amalfi, approdarono sulla Spiaggia Grande di Positano, dove furono ben accolti dai monaci benedettini dell’Abbazia di San Vito.
I monaci, oltre che per dovere di carità, necessitavano di braccia forti per coltivare le proprietà terriere e fu così che inviarono i profughi, in qualità di coloni, nelle frazioni montuose di Positano, ossia Montepertuso e Nocella e nella località di Laurito, contrade che la Repubblica Marinara di Amalfi aveva ceduto in feudo all’Abbazia.
Le testimonianze dirette che possediamo di queste vicende storiche, oltre che documentarie, sono anche archeologiche e toponomastiche. Un ricordo della distruzione della città di Paestum e della fuga degli abitanti verso Positano è rappresentato dal meraviglioso bassorilievo che oggi si trova sulla porticina d’ingresso del campanile, che in precedenza era una transenna presbiteriale dell’antica Abbazia.
Antonio Miniaci che cosa c’entra in tutta questa storia?
Antonio in tutta questa storia è presente. Dopo aver letto questa testimonianza che riguarda il passato di Paestum e delle zone limitrofe, molto triste ma al contempo intrisa di orgoglio e di speranza, Antonio si è sentito parte di essa. Nostalgicamente si definisce “l’ultimo dei Pestani”, l’epigono dei profughi del tempo che fu.
Diverse volte, Antonio, discutendo con i suoi amici e conoscenti sulla sua infanzia, non ha mai nascosto le difficoltà che la sua famiglia ha dovuto affrontare. Ha avuto mille traviamenti che lo hanno portato a girare letteralmente il mondo, al fine di trovare la sua vera dimensione.
Si può dire che sia partito da zero, non possedendo nulla, se non un bagaglio di speranze, come i profughi pestani del Medioevo.
Antonio Miniaci è fuggito dalla barbarie del dopoguerra italiano, come i suoi antenati Saraceni. Dal suo paese che non gli poteva offrire nulla, se non la possibilità di spezzarsi la schiena nei campi. E sempre come loro, alla stessa stregua, egli giunse alla scoperta di Positano. Antonio asserisce continuamente un concetto chiave: approdò nella Positano degli anni 70 per scoprirne la bellezza paesaggistica e la genuinità e l’ospitalità dei suoi abitanti.