Valigia e zaino in spalla e si oltrepassa il famoso ponte, quel ponte che nel linguaggio gergale paesano indica le colonne di Ercole che proteggono un mondo arcaico, rituale e intrecciato di passato e pronvincia. I fuorisede si lasciano alle spalle la realtà rarefatta e allucinata delle loro province e partono alla volta di quello che dovrebbe essere il loro futuro, tagliando il cordone ombelicale intrecciato a doppio filo con quel ponte che protegge i bastioni dei loro paesini arroccati in epoche lontane. Sarebbe limitante classificare I fuorisede del nostro entroterra in una sola categoria: ci sono menti brillanti e che faranno successo, che fuggono per non avvizzire come falene soffocate dalle spire dei propri paesi, quelli che non si sono mai integrati nella rete del microcosmo sociale fatta di piazze, bar e compagnie varie, e che fuggono per poter coniugare l’amore per lo studio e la voglia di riscatto. La voglia di sentirsi accettati e incontrare anime affini, con cui condividere quel palpitante e importantissimo percorso (il più formativo della vita di un individuo) che sono gli anni universitari. E queste menti fuggono, mettono chilometri tra se stessi e le prigioni rustiche che li hanno soffocati negli anni adolescenziali e tornano di rado, forse solo per le feste comandate. Ma poi, di solito, riscoprono l’importanza di sentirsi parte di un tutto, e imparano a perdonare e perdonarsi: si perdonano per non essere stata abbastanza forti da sopravvivere a un contesto paesano così gerarchico e limitante e perdonano anche i propri paesi, crocifissi nella cartina geografica e nell’angolo più fragile della loro memoria. Perdonano i propri luoghi, li assolvono e decidono di sentirli finalmente parte di sé e del proprio io, perché le origini sono come edera rampicante e intrecciata tra i capelli e le reminiscenze più antiche della memoria. Si iniziano a perdonare le vie traballanti, i sassi, le stradine e i calcinacci della memoria, e si inglobano nel bagaglio culturale molto più ampio che si è riusciti a formare negli anni universitari. Vi sono poi I fuorisede che hanno sbagliato. Semplicemente, hanno sbagliato. Hanno deciso di fare l’università semplicemente perché non sapevano cosa rispondere al grande punto interrogativo che aleggiava sulle loro teste alla fine dell’avventura liceale. Partono verso grandi città, Napoli, Bologna, gettonatissima anche la Toscana. Alcuni, gli aficionados, si iscrivono in massa magari a Fisciano, ricreando in toto l’ambiente che hanno lasciato, con le stesse identiche persone e le stesse identiche situazioni, in una sorta di rassicurante nido protettivo o prolungamento del proprio personale ventre materno rappresentato dal paese. Li vedi crescere durante gli anni, li vedi non avere più vent’anni ma venticinque, ventisette, ventotto, trenta, e li vedi rimanere nell’eterno limbo di chi non riesce a imprimere la giusta piega alla propria esistenza, li vedi impelagati in triennali durate il triplo, li vedi vestire per decenni gli eterni panni da fuorisede. Al proprio paese ci tornano, perché il più delle volte i genitori gli tolgono la casa, come è giusto che sia. Il proprio paese è tutto ciò che gli rimane, e ti auguri che possano ripartire da quelle radici per capirsi meglio e non perdere la bussola strada facendo.
Perché smarrirsi è facilissimo, smarrire la bussola nel mare delle possibilità è davvero semplice, e spesso si ha bisogno di un promemoria da consultare nel marasma delle carte nautiche. Quel promemoria ha i contorni e le fattezze del proprio luogo natìo, delle proprie strade e della propria casa. Non scomoderemo nessuna citazione di Pavese, ma ricorderemo comunque l’importanza di non smarrire la propria progettualità e i propri sogni tra i ciottoli del cammino.
Perdere l’indirizzo è facile, ma non è mai troppo tardi per bussare alla porta delle proprie radici e della propria vita.