Qualche anno fa il sindaco uscente Italo Voza si pose e pose ai cittadini una utile ed attualissima domanda: quale ruolo dare, nell’immediato futuro, a Capaccio Scalo? Si aprì un dibattito interessante, che, però, lentamente si affievolì fino a scomparire del tutto. In quella occasione scrissi una mia riflessione, che ripropongo qui di seguito, ritenendola più attuale che mai in questo periodo di campagna elettorale.
A mio modesto parere, l’idea di dare un ruolo più dignitoso a Capaccio Scalo, anche con una nuova toponomastica, non è balzana, ma, invece, coglie e registra una esigenza vera. E bene ha fatto il sindaco, Italo Voza, a porre il problema, sollecitando un dibattito tra le forze politiche, imprenditoriali, intellettuali e tutta la più vasta società civile. Corre, però, l’obbligo, di chiarire fin da subito che non è solo un problema di toponomastica, che se mai viene dopo, solo dopo, un lungo percorso che è di cultura, di storia, di riassetto territoriale. Entro anch’io nel tema, non da tecnico, ma da osservatore attento e con occhio d’amore, con la speranza di dare un contributo. E parto da una premessa necessaria, sottolineando concetti noti ai più, soprattutto agli addetti ai lavori.
La città, ed ogni centro urbano lo è nell’accezione più ampia del termine, ubbidisce, o dovrebbe ubbidire, ad una logica di organizzazione fisica (l’assetto urbanistico) e di funzioni (istituzioni, servizi sociali, culturali, ricreativi e ludici, religiosi, ecc.) con una perfetta sinergia tra spazi privati e pubblici adeguatamente attrezzati, soprattutto questi ultimi. Per Capaccio Scalo così non è. Si tratta di una contrada cresciuta a dismisura negli ultimi decenni con una visione miope dello sviluppo urbano, che ha privilegiato l’edilizia per civili abitazioni, a scapito, spesso o quasi sempre, di quella pubblica, a servizio delle esigenze sociali dell’intera collettività. Ne è venuta fuori una conurbazione con agglomerazioni a schiera e supersfruttamento del suolo edificabile ed edificato lungo la statale 18, prima e dopo la rotatoria centrale, e lungo la via del mare verso la Laura, dando l’impressione, a chi vi capita per la prima volta, di essere arrivato più in un quartiere periferico di Napoli (Secondigliano, Casoria, in parte anche Scampia, ecc.) che nel cuore, o quasi, di uno dei più straordinari siti dell’archeologia di caratura mondiale, patrimonio dell’Unesco, tra l’altro. Totale assenza, o quasi, di un minimo di infrastrutturazione di servizi culturali. Per fortuna l’imprenditoria privata ha fatto la sua parte e sono nati bar confortevoli, dove è possibile dare appuntamento agli amici per un caffè o per uno scambio di idee. Diversamente ci sarebbe solo la strada, il cui traffico intenso a qualsiasi ora del giorno e, da un po’ di tempo a questa parte, anche della notte, non consente neppure una passeggiata in tranquillità. Certo più giù c’è Piazza Santini, ma è fredda, poco accogliente, quasi invivibile (necessita di una riflessione a parte). Per il resto lo sviluppo urbanistico dell’intera contrada, compreso anche il vicino Rettifilo ubbidisce ad una logica più di cittadini migranti che di stanziali. Le case sono a margine di strada, quasi come per una via di fuga improvvisa. E’ la vecchia logica della ruralità: la casa a distanza ravvicinata della proprietà contadina per raggiungere con estrema facilità il luogo di lavoro. Il tema è stimolante e merita analisi attente e rigorose con l’occhio alla sociologia politica ed ancorandosi alla storia antica e moderna della contrada e dell’intero territorio per ridisegnarne il futuro. E certamente anche la toponomastica può e, secondo me, deve aiutare. Mi sia consentito consigliare ai candidati/sindaco di riempire di contenuti vitali l’agenda/dibattito della campagna elettorale anche con questo che non è solo un problema di toponomastica, ma ne investe uno più vasto ed importante, in quanto mette mano alla storia passata, presente e futura di Paestum. Il che non può e non deve consentire peccati/colpe e sfregi alla cultura e alla bellezza, anche perché il mondo ci guarda e ci giudica. E’ d’obbligo,quindi, allargare il discorso…
Alla Stazione di Capaccio/Roccadaspide è spettacolo da terzo mondo lo spiazzo antistante con l’ingorgo delle macchine (numerose in coincidenza con l’arrivo e la partenza dei treni), che si destreggiano a stento tra buche ed avvallamenti nelle giornate di pioggia, terriccio polveroso e stridente alle sgommate nella stagione calda. E “Benvenuti nel regno del degrado” con il muraglione di cinta a conquista di un florido canneto, di un tiglio profumato, di una ficaia lussureggiante di vegetazione spontanea e con il cancello malfermo a protezione (!?) di materiale ferroviario di risulta ad invasione di rovi de “La piccola”, come si chiamava quella parte di stazione. Che peccato i vecchi locali da deposito con i tetti cadenti e gli infissi sbrindellati! E grida vendetta, per il colpevole abbandono, l’enorme patrimonio edilizio, che, invece, potrebbe essere immesso nel circuito fecondo di attività produttive. Colpa, di certo, delle Ferrovie dello Stato, che con la trovata delle stazioni “impresenziate” si lavano mani e coscienza, ma anche della latitanza irresponsabile e della tacita complicità degli Enti Locali (comuni di Capaccio e Roccadaspide, innanzitutto, titolari almeno di nome, della stazione), che non ne reclamano un riuso intelligente. Per la verità si potrebbe attivare il Parco Nazionale del Cilento attraverso un opportuno protocollo di intesa con la Società delle Ferrovie, che troverebbe utile e conveniente, suppongo, immettere nel circuito della fruizione un patrimonio diversamente destinato al degrado totale. Si potrebbe configurare, così, un polo funzionale con: punti di accoglienza con tanto di pannelli luminosi e poster, uffici/informazioni e vetrina di prodotti tipici artigianali ed enogastronomici di tutto il territorio della (fu) Comunità Montana lungo i due versanti: da Capaccio a Stio, da un lato, e da Roccadaspide a Sacco, dall’altro. Sarebbe questa una strada da percorrere fino in fondo per i giovani che vogliano correre l’avventura stimolante del rischio di impresa. Se ne potrebbe occupare il Parco del Cilento, dicevo, o, in caso di latitanza, anche il Patto Magna Grecia, di cui è presidente tanto determinato e volitivo quanto creativo il Cav. Francesco Palumbo, uno dei candidati/sindaco a Capaccio Paestum o il Corsozio di Bonifica o una Fondazione o un organismo nuovo che faccia rete e sinergia di produttività di tutti questi enti messi insieme. Una cosa è certa: urge procedere speditamente ad una bonifica della zona anche come supporto di “servizi”. Tema, questo, importante ed improcrastinabile di cui mi occuperò a breve.